by Redazione | 24 March 2023 | Articoli, Blog
Il Business Process Management (BPM) è una combinazione di strumenti e soluzioni che aiuta le organizzazioni a raggiungere un livello ottimale di automazione, gestione e ottimizzazione dei processi. Lo scopo delle metodologie BPM è promuovere il miglioramento continuo, la scalabilità e l’efficienza operativa utilizzando un approccio olistico, analizzando e migliorando i processi aziendali.
La gestione dei processi aziendali è quindi una disciplina organizzativa mediante la quale si analizza lo stato delle cose e si identificano le aree di miglioramento per creare un’organizzazione più efficiente ed efficace tramite la definizione, la progettazione, l’esecuzione, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei processi aziendali. Semplificando i processi ed eliminando gli sprechi è posibile ridurre i costi e migliorare la qualità dei propri prodotti e servizi.
Inoltre, la gestione dei processi aziendali aiuta le organizzazioni a essere più reattive alle mutevoli esigenze dei clienti e del mercato e ad adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie e ai nuovi modelli di business. Questo avviene implementando una strategia BPM. Le fasi del ciclo di vita di una strategia BPM sono:
- PROGETTAZIONE: La maggior parte dei processi include un modulo per raccogliere i dati e un flusso di lavoro per elaborarli. Viene creato uno schema che identifica chi sarà il proprietario di ogni attività in ogni flusso di lavoro.
- DISEGNO DI UN MODELLO: Si rappresentano i processi con un layout visivo, includendo dettagli come tempi, scadenze e condizioni per dare un’idea chiara della sequenza degli eventi e del flusso dei dati durante ogni processo.
- ESECUZIONE DEI PROCESSI: Si eseguono i processi, testandoli prima dal vivo con un piccolo gruppo e poi attivandoli per tutti gli utenti. E’ importante assicurarsi di limitare l’accesso alle informazioni sensibili.
- MONITORAGGIO: Si osserva ogni processo del flusso di lavoro in azione. Si identificano le metriche per valutare i progressi, misurare l’efficienza e individuare eventuali colli di bottiglia, anche mediante la registrazione di dati e l’utilizzo di tecniche di business intelligence.
- OTTIMIZZAZIONE: Durante le analisi di monitoraggio vengono annotate eventuali modifiche che devono essere apportate ai moduli, ai processi o al flusso di lavoro per renderli più efficienti. Anch’esse vanno implementate e monitorate.
Le più diffuse best practices per la gestione dei processi all’interno di una strategia BPM comprendono la definizione di scopi e obiettivi chiari (relativamente ai risultati che si vogliono ottenere), il coinvolgimento di tutte le parti interessate, la documentazione di tutte le analisi di processo (anche per tenere traccia dei progressi nel tempo), il monitoraggio sistematico delle prestazioni, l’utilizzo di nuove tecnologie (in particolare digitali) e infine la promozione di una cultura del miglioramento continuo all’interno della realtà aziendale.
Con tutte queste componenti ben organizzate, le aziende possono raggiungere elevati livelli di efficienza aumentando la propria competitività, soprattutto considerando che oggi gli strumenti tecnologici per gestire una strategia BPM sono alla portata di tutti.
by Redazione | 19 December 2022 | Articoli, Blog
Sono in corso di perfezionamento le iniziative proposte dalle istituzioni europee nell’ambito del grande piano per la Sostenibilità ambientale denominato Green Deal. Si prevede che alcune di queste iniziative, oltre che incentivare in generale l’innovazione aziendale in termini di miglioramento delle condizioni ambientali (tramite efficientamento energetico, riduzione delle emissioni, aumento della quota di rinnovabili, riciclo e ri-utilizzo, trasparenza e tracciabilità ecc.), diventeranno presto norme di legge in Europa. Come annunciato nel piano d’azione per l’economia circolare, infatti, la Commissione propone “nuove norme per rendere quasi tutti i beni fisici presenti sul mercato dell’UE più rispettosi dell’ambiente, circolari ed efficienti sotto il profilo energetico lungo l’intero ciclo di vita dalla fase di progettazione fino all’uso quotidiano, al cambio di destinazione e alla gestione del fine vita”. Entro il 2030 il nuovo quadro potrà assicurare, tra l’altro, un risparmio di circa 150 miliardi di metri cubi di gas naturale.
Per il settore Moda, in generale, emerge il duplice obiettivo di rendere i prodotti tessili più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili, affrontando il problema del “fast fashion” e della distruzione dei tessili invenduti, oltre che per garantire che la produzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori; inoltre, di responsabilizzare i consumatori nella transizione verde, garantendo loro una migliore informazione sulla sostenibilità ambientale dei prodotti e una migliore protezione dal marketing ingannevole. Il consumo di prodotti tessili nel vecchio continente si trova “al quarto posto per maggiore impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici dopo l’alimentazione, gli alloggi e la mobilità; si tratta inoltre del terzo settore in ordine di consumi per quanto riguarda l’uso di acqua e suolo e del quinto per l’uso di materie prime primarie”.
Per quanto concerne il mercato del Fashion in particolare, infatti, due sono le novità più rilevanti, che verranno presumibilmente attuate nel corso del 2023: il Digital Product Passport e l’Anti-Greenwashing Plan. Le proposte si basano sul successo delle attuali norme dell’UE in materia di progettazione ecocompatibile, che hanno comportato notevoli riduzioni del consumo energetico e risparmi significativi per i consumatori.
DIGITAL PRODUCT PASSPORT:
Si tratta del passaporto digitale di ogni singolo prodotto, contenente una serie di informazioni (provenienza, luoghi delle lavorazioni, materiali, smaltimento, ecc.) relative al suo grado di sostenibilità ambientale e volto ad aiutare i consumatori e le imprese a compiere scelte consapevoli al momento dell’acquisto, per facilitare le riparazioni, il riciclo e incentivare la trasparenza. Ogni prodotto verrà quindi accompagnato nel suo intero viaggio commerciale da un’etichetta con dati leggibili digitalmente, che renderà trasparente “il grado di ecosostenibilità del capo, la tipologia dei materiali, i processi con cui è stato realizzato, la sua riciclabilità, il trasporto e, ancora, le iniziative green utili a compensare l’impatto ambientale”. Il passaporto digitale potrà fare uso delle ultime tecnologie informatiche come ad esempio Blockchain, NFT e geolocalizzazione, implementando così meccanismi automatici di tracciabilità lungo la catena di approvvigionamento a garanzia di autenticità e veridicità. La proposta prevede anche “misure volte ad arrestare la distruzione dei beni di consumo invenduti, accrescere il potenziale degli appalti pubblici verdi e incentivare i prodotti sostenibili”. Il parere delle istituzioni è che i produttori debbano assumersi la responsabilità dei propri prodotti lungo la catena del valore, anche una volta divenuti rifiuti. Ciò migliorerà anche la trasparenza verso il consumatore.
ANTI-GREENWASHING PLAN:
Saranno messe in atto iniziative stringenti per quanto riguarda il greenwashing, ovvero la tecnica di comunicazione/marketing che tenta di capitalizzare la crescente domanda di prodotti e comportamenti a basso impatto ambientale, accendendo i riflettori su azioni che in realtà non sono autentiche, ma promosse al solo scopo di mostrarsi virtuosi dal punto di vista della Sostenibilità. Ciò si tradurrà ben presto nell’obbligo, da parte dei brand, di sostanziare e supportare le proprie affermazioni con dati certi, scientifici, certificati da organi autorevoli e riconosciuti, veicolando informazioni precise, non generiche e verificabili. Gli esempi di ricorso alla tecnica del greenwashing nel recente passato sono innumerevoli, e hanno coinvolto marchi del calibro di H&M, Coca Cola, Eni e Ikea, solo per citare i più famosi. Nel settore Moda, già da tempo sono attive certificazioni specifiche, come il Global Recycle Standard per le materie prime proveniente da riciclo, oppure il Global Organic Textile Standard che verte sulle modalità di produzione di fibre naturali biologiche.
Come si evince, le sfide e le innovazioni cui le aziende dovranno far fronte nel prossimo futuro non sono da poco, e si allineano con l’attuale delicata situazione in termini energetici e ambientali in Europa. Sta ora a loro trasformare il cambiamento in opportunità di business.
by Redazione | 13 October 2022 | Articoli, Blog
L’uomo ha da sempre bisogno di nuovi stimoli, di provare e di sperimentare nuovi progetti e di lanciarsi in sfide sempre più difficili. I progressi delle nuove tecnologie ne sono la prova, c’è sempre più voglia di essere efficaci ed efficienti senza lasciare nulla al caso. Il punto di forza degli elementi innovativi è che, oltre ad avere sempre dei miglioramenti costanti e continui, non si limitano solo al settore in cui vengono sviluppate, ma possono essere utili anche in altre discipline. È necessario tenere a mente che bisogna unire lo sviluppo tecnologico e innovativo con la creatività e il pensiero dell’uomo, senza evitare che uno dei due aspetti prenda il sopravvento ma cerare di creare un equilibrio tra i due elementi. Solo in questa maniera i risultati che si otterranno saranno duraturi nel tempo e avranno l’opportunità di crescere e diventare punti fermi nei diversi settori coinvolti.
Un tema che oggi sta facendo parlare molto di sé per tutte le sue funzionalità è l’Agile Project Management. Ha avuto origine nello sviluppo di software, ma i suoi principi possono essere applicati anche in altre discipline. Si tratta di una metodologia di gestione dei progetti che usa cicli di sviluppo brevi chiamati sprint per mantenere l’attenzione sul miglioramento continuo nello sviluppo di un prodotto, servizio o altro risultato. Al termine di ogni fase di testing o collaudo si può ripartire con la fase di pianificazione per eventuali correzioni o con step successivi, definendo così un ciclo interattivo di sviluppo. Pone al centro dell’attenzione il collaboratore e si focalizza sul contesto in cui si trova ad operare, includendo un ambiente confortevole anche dal punto di vista relazionale.
Le quattro caratteristiche base che definiscono l’Agile sono:
- Comunicazione e collaborazione
- Team internazionali
- Flessibilità ed adattabilità
- Leadership distribuita

Le modalità di applicazione sono pure quattro, ovvero le seguenti:
- Interattiva: lo sviluppo si basa su interazioni in cui vengono progettate versioni parziali dei prodotti o servizi, che vengono sottoposte a revisione anche con il cliente o l’utilizzatore finale.
- Incrementale: il prodotto ha la caratteristica di essere costituito da elementi incrementali rilasciati al termine di ogni interazione. Si pianificano piccoli rilasci di funzionalità che hanno valore per il cliente.
- Cross-functional: per poter rilasciare piccoli incrementi di prodotto utilizzabili e fruibili dal cliente finale, il team deve essere inter-funzionale e includere tutte le skills necessarie per poter realizzare le fasi di analisi, sviluppo e test, e per gestire tutte le tecnologie impiegate.
- Empowered Team: Il team deve trovarsi nelle condizioni di poter rispondere ai cambiamenti anche imprevisti ed incoraggiato ad affrontarli e a condividerli.
Ne consegue che i principali vantaggi che determinano l’utilizzo dell’Agile Management sono: fiducia reciproca tra i membri del team ed il cliente, adattamento ai cambiamenti in base alle priorità che dell’acquirente anche senza preavviso, rapidi e frequenti rilasci in produzione degli sviluppi richiesti ed infine il forte senso di squadra che unisce tutti i lavoratori a dare il massimo per raggiungere l’obiettivo nel miglior modo possibile. Allo stesso tempo c’è bisogno di un lavoro in presenza sia per instaurare un solido rapporto tra colleghi ed evitare una scarsa motivazione ed un ridotto impegno, che per tenere compatto il gruppo in caso di turnover. Un altro elemento che richiede attenzione è il calcolo dei costi, perché le richieste del cliente possono variare molto rapidamente ed è necessario avere un occhio critico sulla capacità di spesa.
Un caso reale:
Tra le prime aziende a sperimentare l’organizzazione Agile, mostrando la strada a molte realtà è Spotify. In fase iniziale l’azienda è stata avviata con un numero ridotto di dipendenti, fino ad arrivare a 30 team Agile distribuiti in quattro diverse città. Il modello Agile Spotify prende il nome più specifico e identificativo di “Spotify Tribe”, basato sull’innovazione, la collaborazione e l’autonomia nella generazione di idee. I principi base su cui si fonda questa tecnologia sono: l’autonomia decisionale dove ogni squadra prende le decisioni che più ritiene consone per lo svolgimento del progetto, cross-fertilization e motivazione dove ogni gruppo è libero di scegliere quali metodi utilizzare, servant-leader e rispetto, treni di rilascio e creazione di nuove funzionalità che possono essere da subito rese disponibili ai clienti, infine Squadre Agile composte solitamente da otto persone che hanno tutte la stessa autonomia e lo stesso potere decisionale.
Spotify è solo una delle tante aziende che ha deciso di intraprendere il percorso dell’Agile, metodologia fortemente in crescita e in grande sviluppo. Inizialmente può incutere un po’ di timore il fatto di lasciare libertà ed autonomia a tanti piccoli gruppi di lavoro ma, allo stesso tempo, permette alle persone di dimostrare le loro capacità e il loro potenziale. Sicuramente l’Agile Project Management continuerà ad espandersi e a migliorarsi e continueremo ancora per molto a sentirne parlare!
by Redazione | 5 May 2022 | Articoli, Blog
Sul fatto che il mondo del fashion stia cambiando non ci sono dubbi. Tuttavia, sebbene molte imprese abbiano adottato un approccio direzionale in linea con le nuove prospettive, resta calda la questione riguardante la trasparenza aziendale che ultimamente sta diventando un caposaldo rilevante per il settore moda. Con questo termine si definisce la procedura, più o meno dettagliata, attraverso cui un’azienda decide di comunicare all’esterno tutte quelle caratteristiche e processi che determinano la creazione di un prodotto o servizio, nonché le iniziative e operazioni che si intendono intraprendere per raggiungere la mission di fondo. Non mancano a tal riguardo, riferimenti agli impatti ambientali che ne derivano così come agli interessi sociali rivendicati, quali diritti umani e pratiche di inclusività. All’interno dell’industria del fashion, se in passato tale aspetto veniva posto in secondo piano e non sempre gli veniva attribuita una giusta considerazione, ora risulta essere un fattore determinante per ottenere un vantaggio competitivo all’interno del mercato.
Il consumatore è molto più sofisticato rispetto a qualche anno fa; è incline a conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto che acquista ed è più attento a considerare i risvolti positivi e negativi delle sue azioni. Infatti, la consapevolezza di contribuire indirettamente a ridurre, ad esempio, gli impatti ambientali con l’acquisto di un prodotto sostenibile, genera valore sia per l’azienda sia per il consumatore stesso. Questo comportamento più esigente e selettivo, ha portato le aziende a cercare di comunicare il proprio operato con un approccio più chiaro e trasparente mettendo in luce gli obiettivi e i risultati che vengono raggiunti. Ciò determina un incremento dell’engagement tra l’organizzazione e il cliente che può effettuare un acquisto più cosciente sulla base delle informazioni che riesce a reperire.
Dalla tragedia di Rana Plaza avvenuta nell’aprile del 2013, che mise in luce le pessime condizioni in cui i lavoratori erano sottoposti, diverse iniziative e miglioramenti sono stati intrapresi dall’industria del fashion affinché i diritti umani venissero tutelati e ci fosse una maggiore trasparenza lungo l’intera supply chain. Per incentivare i grandi brand a divulgare una maggiore credibilità e confrontare i diversi livelli di trasparenza, è stato creato il Fashion Trasparency Index che nell’ultimo report del 2021 (cfr. Fashion Revolution) ha analizzato il grado di trasparenza di 250 grandi marchi e rivenditori sulla base di alcuni indicatori raggruppati in 5 macro-aree:
- Policies and commitments
- Governance
- Supply chain traceability
- Know, show e fix
- Spotlight sulle azioni messe in atto in risposta al covid-19.
(Per vedere la classifica dei brand clicca qui)
Lo scopo non è solo quello di rendere più consapevole l’acquisto che si sta facendo, ma anche promuovere un senso di attivismo che salvaguardi i diritti umani di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo. Come afferma il report, la mancanza di trasparenza comporta l’incapacità di adottare tempestivamente misure di intervento contro gli abusi nei confronti dei soggetti coinvolti e del pianeta. È bene ricordare, infatti, che trasparenza non significa sostenibilità ma che quest’ultima è raggiungibile solamente attraverso una nitida e comprensibile comunicazione degli impatti sociali e ambientali.
Spesso, parte del problema risiede a monte della catena produttiva che risulta essere complessa e opaca in quanto emergono squilibri tra i compratori e i fornitori e forme di sub-contratto possono compromettere la salute dei lavoratori. Infatti, secondo l’indagine condotta dal Fashion Revolution, sebbene il 62% dei brand intervistati mette in evidenza gli impatti ambientali delle operazioni a valle della filiera, essi non mostrano questi dati a livello di tutta la catena di approvvigionamento, dove si verificano circa l’80% delle emissioni. Altra questione importante, riguarda il fatto che quasi tutti i brand (99%) non rilevano il numero di lavoratori a cui non viene garantito un salario sufficiente per vivere nel proprio Paese. Si tratta, in particolare, di persone provenienti da Bangladesh, India, Cina e Indonesia che sono occupate nella fase di manodopera.
Cosa si può fare, allora, per evitare di alimentare un tale sistema e raggiungere un grado più elevato di trasparenza? Come prima cosa, ci deve essere un reciproco impegno tra il consumatore e l’azienda: ciò che può fare il primo è effettuare un acquisto più consapevole sulla base delle caratteristiche del prodotto in questione, mentre spetta al secondo provvedere a comunicare tali informazioni. Per facilitare questo interscambio, risulta efficace adottare un sistema di tracciabilità delle varie fasi produttive basato sull’utilizzo della blockchain (qui il nostro articolo a riguardo) che può garantire maggiore chiarezza ad ogni livello della catena di produzione fino al consumatore finale. L’Onu stessa è pronta a promuovere una forma di tracciamento da utilizzare come modello per tutte le imprese. (cfr. A global call for full supply chain transparency in the clothing sector).
Ulteriore strumento importante che si sta sviluppando è il così detto passaporto digitale messo a punto da Federico Marchetti (fondatore di Ynap) che, durante il G20 di Roma, insieme ad altri componenti della Fashion Taskforce, ha presentato la nuova iniziativa con lo scopo di fornire al cliente la storia del prodotto che si acquista. Si tratta di delineare in che modo i capi vengono realizzati, come sono stati distribuiti e che tipo di trattamento è stato eseguito. In tal modo, si avrà una visione più completa e veritiera di ciò che si indossa facilitando, di conseguenza, lo sviluppo di un’economia più sostenibile. Similmente, la Responsible Business Coalition, Accenture e Vogue, sta sperimentando l’introduzione di un logo digitale nei siti web da poter poi essere applicato anche sulle etichette stesse dei prodotti fisici che mostra, cliccandoci sopra i criteri ambientali o etici che l’indumento soddisfa (cfr. Impact Index, Vogue).
Se da una parte, come afferma lo studio condotto dal Global Luxury Brands Survey Report, il 70% dei brand analizzati prevede di migliorare i profitti nei prossimi due anni, è bene tenere presente che oltre alle entrate, un fattore determinante sarà rappresentato proprio dal grado di trasparenza aziendale riguardante le politiche, le pratiche e gli impatti a livello ESG (Environmental, Social and Governance).
by Redazione | 20 April 2022 | Articoli, Blog
Al giorno d’oggi, parlare di sostenibilità all’interno del settore moda è diventato un must e per quanto l’argomento possa cadere in considerazioni retoriche e ridondanti, trattare certe tematiche permette di aumentare la consapevolezza e far sì che, questa, sia messa al servizio dei nostri comportamenti e scelte di acquisto. Spesso, tale tema è accompagnato dal concetto di innovazione inteso come processo capace di combinare determinati fattori esistenti per realizzare un prodotto che, in questo caso, risulti avere un basso impatto ambientale. Il legame tra sostenibilità e innovazione è dato dall’utilizzo di tecnologie che, progressivamente, stanno diventando parte integrante dell’industria fashion giocando un ruolo chiave negli sviluppi logistici e produttivi.
Si è introdotto, così, il termine moda sostenibile facendo riferimento a un cambiamento di paradigma che pone l’attenzione sia all’aspetto sociale sia a quello ambientale. Si tratta, fondamentalmente, di riuscire a garantire un’economia circolare basata sul riutilizzo dei prodotti, sulla riduzione degli sprechi e sulla salvaguardia delle condizioni lavorative dei dipendenti lungo la filiera. Ma perché è necessario promuovere un tale sistema e perché è importante che ognuno di noi sappia cosa sta indossando? La risposta è facilmente intuibile se si osservano i dati relativi all’inquinamento prodotto dall’industria moda considerata uno dei settori più allarmanti dal punto di vista dell’ impatto ambientale.
Stando a quanto riferito nel report “The State of Fashion 2022”, ogni anno nel mondo vengono prodotti circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la maggior parte dei quali sono inceneriti o smaltiti in discarica. Indumenti fabbricati con poliestere e altre fibre sintetiche sono fonte di microplastiche che rappresentano una grave minaccia per la vita marina. Le conseguenze sono emissioni di CO2 pari a 2,1 miliardi di tonnellate l’anno che rendono il settore responsabile del 4%-10% delle emissioni globali annuali. Se si pensa poi, alla fase di produzione, risulta ben chiaro quanto sia necessario un interesse da parte di ognuno di noi a riguardo. Durante la fase di tintura tessile, ad esempio, l’acqua utilizzata viene spesso scaricata in fossati, torrenti o fiumi contribuendo al loro inquinamento. Per produrre una maglietta di cotone, si stima che ci vogliano 2700 L di acqua, l’equivalente di ciò che beve una persona in due anni e mezzo. Per un paio di jeans si arriva a oltre 9000 L. Questi numeri ci possono dir poco ma sono cruciali per l’ambiente in cui viviamo e le conseguenze che ne possono derivare, a causa di un mancato intervento, non saranno di certo piacevoli. Siamo ancora in tempo, allora, per non cadere nel baratro di una via senza ritorno? Forse.
Negli ultimi anni, grazie a una maggiore sensibilizzazione dei consumatori verso tematiche green e sociali, diverse imprese del settore moda hanno ridimensionato le loro prerogative in un’ottica più sostenibile cercando di ridurre gli effetti negativi. Un recente sondaggio condotto da una società svizzera che ha coinvolto circa 10 000 consumatori appartenenti alla generazione Z e ai millennial, ha rilevato che l’80% degli intervistati è intenzionato a comprare solo prodotti sostenibili o almeno quanti più possibili (cfr. Bloomberg). Ulteriore spinta è stata data dagli obiettivi che i governi si sono posti per sanare l’emergenza climatica e per promuovere un’economia circolare. Durante l’ultimo incontro COP26 tenutosi a Glasgow lo scorso novembre, 130 aziende (tra cui Stella McCartney, Burberry, H&M Group, Adidas, il gruppo Kering, Chanel, Nike ) e 41 organizzazioni di supporto hanno dichiarato il loro impegno a dimezzare le emissioni entro il 2030, e a ridurle a zero entro il 2050 (cfr. The State of Fashion 2022).
Oltre a incoraggiare l’uso di materiali come il cotone organico, il poliestere riciclato (quest’ultimo permette un risparmio di energia del 60%) e fibre di nylon provenienti dalle reti da pesca, diverse tecnologie si stanno sviluppando per agevolare pratiche sostenibili. A fungere da driver di questo cambiamento ci sono diverse start-up innovative che stanno cercando di trovare delle metodologie per convertire scarti di materiale organico, derivanti da industrie agricole e alimentari, in nuovi tessuti. Ne sono un esempio alcune aziende del Made-in Italy che riescono a realizzare fibre simili alla cellulosa dalle bucce di arancia e tessuti dall’intreccio di fili di seta tinti con i fondi del caffè. Un’interessante iniziativa è portata avanti dal progetto di ricerca industriale Tex – Style che, insieme all’ente Enea e al centro ricerche Fiat, sta progettando un materiale hi-tech utilizzando fibre di carbonio riciclato. Il prodotto finito è destinato ad un abbigliamento tecnico ma anche all’arredamento (cfr. Tessuti da fibra di carbonio riciclata). Ulteriore soluzione si sta sviluppando per la fase di smaltimento del cotone per cercare di trasformarlo in catene di zuccheri e successivamente in bioetanolo introducendo una nuova energia nel ciclo produttivo.
E’ evidente come la contaminazione tra moda e tecnologia rappresenti una fase di progresso verso un sistema economico e sociale più sostenibile. Tuttavia, per poter raggiungere tale sistema sono necessarie risorse finanziarie che permettono di sviluppare su larga scala queste innovazioni. Il contributo che può dare ognuno di noi, a livello di singola persona, è acquistare di meno, preferibilmente prodotti locali, di seconda mano, e utilizzare il capo il più a lungo possibile. Infatti, alcuni studi hanno dimostrato che le persone tendono a non indossare più un vestito dopo solo 10 volte che lo hanno usato (cfr. Bloomberg). Inoltre, conoscere in dettaglio il prodotto che si sta acquistando ci permette di capire la provenienza dei materiali e come questi sono stati trattati. Per garantire queste informazioni è necessario incrementare sistemi di trasparenza e tracciabilità.
Noi di MAS, da sempre, ci impegniamo a sostenere e aiutare le imprese che abbracciano pratiche di sostenibilità e vogliono sviluppare modelli di business circolari. Riteniamo che la valorizzazione dei prodotti locali del Made-in-Italy realizzati secondo criteri di eticità e trasparenza sia fondamentale per promuovere un consumo consapevole.
L’ecologista G. Hardin nel suo articolo “The tragedy of the commons” (1968) , affermava citando Hegel: “Freedom is the recognition of necessity” intendendo con queste parole che noi, in quanto società, dobbiamo riconoscere che certe nostre azioni possono portare a risultati indesiderati e che limitare le stesse non significhi limitare la libertà. Dunque, se indirizzare le nostre scelte verso un acquisto più consapevole ci può sembrare una minaccia al libero arbitrio, ricordiamoci che riconoscere la necessità di preservare l’ambiente circostante e garantire alle generazioni future le stesse risorse, è essa stessa una forma di libertà.