La ricerca del lavoro nell’era post-pandemia: nuove generazioni e Great Resignation

La ricerca del lavoro nell’era post-pandemia: nuove generazioni e Great Resignation

Torniamo indietro di qualche anno a quando la pandemia e le mascherine erano solo scene da film, l’idea di smart-working non era ancora entrata nelle nostre teste e recarsi a lavoro in ufficio era consuetudine giornaliera. Da allora molte cose sono cambiate nel giro di poco tempo. D’altronde un evento imprevisto e così dirompente non può che sconvolgere l’equilibrio a cui eravamo abituati. Trascorsi poco più di due anni dall’inizio dello stato di emergenza possiamo dire che si è assistito a una trasformazione progressiva non solo a livello aziendale ma anche sociale. Se da un lato le organizzazioni hanno dovuto adattarsi alle nuove esigenze, implementando nuove tecnologie e sistemi informatici, dall’altro si sono ridimensionate le priorità e i bisogni individuali.

Le conseguenze di tali cambiamenti sono visibili in diversi ambiti tra cui quello della gestione e ricerca del personale. Se la maggior parte dei dipendenti si è dimostrata favorevole a forme ibride in cui si alternano giorni di lavoro in presenza e altri da remoto, pensare di impiegare il personale sempre e solo in ufficio, oppure optare per una modalità di lavoro 100% a distanza, potrebbe scontentare una parte significativa della propria forza lavoro. (cfr. Alight Solutions). Ciò che è richiesto, oggi, è una flessibilità che permette di poter migliorare l’equilibrio vita-lavoro e le proprie prerogative personali.

Si è entrati nella così detta Great Resignation, iniziata negli Stati Uniti nel 2021, ed ora presente anche in Italia. Si tratta di un boom generale di dimissioni volontarie dovute a diverse cause tra cui la ricerca di uno stile di vita migliore e condizioni economiche più soddisfacenti. Nel nostro Paese, stando a quanto riportato dall’Aidp (associazione italiana direzione personale) il fenomeno interessa il 60% delle aziende e tra i settori più coinvolti ci sono quello informatico-digitale (32%), produzione (28%) e marketing e commerciale (27%). Le persone che intraprendono questa strada sono per lo più Millenials e giovani appartenenti alla generazione Z che cercano un impiego tale da poter soddisfare le loro esigenze e che sia in linea con i loro valori. Se in passato si ambiva principalmente al così detto “posto fisso”, adesso le aziende devono sapere comunicare con i loro dipendenti e tenere in considerazione nuovi elementi nel processo di selezione e reclutamento del personale. Ciò ha un riscontro rilevante nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel mercato, in particolar modo per i più giovani che cercano un impiego e per i datori di lavoro a cui è richiesto un interesse più profondo nei confronti dei propri collaboratori.

Secondo il già citato studio condotto dal Alight Solution intitolato “l’Era dell’HR Agile”, per la generazione Z e i Millenials sono 4 i fattori che determinano l’individuazione dell’impresa ideale:

  • Cultura aziendale allineata ai valori personali
  • Possibilità di ottenere lavoro ibrido
  • Accesso a un percorso formativo e di crescita (per il 30% è essenziale), anche nell’ottica di un possibile cambio di lavoro (il 25% lo mette in conto) e possibilità di far carriera (il 49% è disposto a licenziarsi in assenza di prospettive)
  • Trasparenza salariale (il 48% lo richiede)

Il motivo per cui ultimamente si è assistito ad un aumento delle dimissioni da parte dei giovani impiegati può derivare dal fatto che spesso le aziende non sono riuscite ad intercettare questi trend trascurando i desideri di autorealizzazione e di crescita personale.

Una delle sfide più ardue che gli HR si troveranno ad affrontare sarà proprio quella di riuscire ad attrarre e trattenere i talenti partendo da un’approfondita analisi della situazione organizzativa. E’ necessario sapere realmente ascoltare i dipendenti, chiedersi se ciò che fanno sia in linea con i loro ideali e rafforzare valori, quali fiducia, comprensione e senso di appartenenza. Inoltre, essere in grado di valorizzare il loro operato è essenziale per creare un senso di soddisfazione personale.

La trasparenza aziendale come vantaggio competitivo

La trasparenza aziendale come vantaggio competitivo

Sul fatto che il mondo del fashion stia cambiando non ci sono dubbi. Tuttavia, sebbene molte imprese abbiano adottato un approccio direzionale in linea con le nuove prospettive, resta calda la questione riguardante la trasparenza aziendale che ultimamente sta diventando un caposaldo rilevante per il settore moda. Con questo termine si definisce la procedura, più o meno dettagliata, attraverso cui un’azienda decide di comunicare all’esterno tutte quelle caratteristiche e processi che determinano la creazione di un prodotto o servizio, nonché le iniziative e operazioni che si intendono intraprendere per raggiungere la mission di fondo. Non mancano a tal riguardo, riferimenti agli impatti ambientali che ne derivano così come agli interessi sociali rivendicati, quali diritti umani e pratiche di inclusività. All’interno dell’industria del fashion, se in passato tale aspetto veniva posto in secondo piano e non sempre gli veniva attribuita una giusta considerazione, ora risulta essere un fattore determinante per ottenere un vantaggio competitivo all’interno del mercato.

Il consumatore è molto più sofisticato rispetto a qualche anno fa; è incline a conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto che acquista ed è più attento a considerare i risvolti positivi e negativi delle sue azioni. Infatti, la consapevolezza di contribuire indirettamente a ridurre, ad esempio, gli impatti ambientali con l’acquisto di un prodotto sostenibile, genera valore sia per l’azienda sia per il consumatore stesso. Questo comportamento più esigente e selettivo, ha portato le aziende a cercare di comunicare il proprio operato con un approccio più chiaro e trasparente mettendo in luce gli obiettivi e i risultati che vengono raggiunti. Ciò determina un incremento dell’engagement tra l’organizzazione e il cliente che può effettuare un acquisto più cosciente sulla base delle informazioni che riesce a reperire.

Dalla tragedia di Rana Plaza avvenuta nell’aprile del 2013, che mise in luce le pessime condizioni in cui i lavoratori erano sottoposti, diverse iniziative e miglioramenti sono stati intrapresi dall’industria del fashion affinché i diritti umani venissero tutelati e ci fosse una maggiore trasparenza lungo l’intera supply chain. Per incentivare i grandi brand a divulgare una maggiore credibilità e confrontare i diversi livelli di trasparenza, è stato creato il Fashion Trasparency Index che nell’ultimo report del 2021 (cfr. Fashion Revolution) ha analizzato il grado di trasparenza di 250 grandi marchi e rivenditori sulla base di alcuni indicatori raggruppati in 5 macro-aree:

  • Policies and commitments
  • Governance
  • Supply chain traceability
  • Know, show e fix
  • Spotlight sulle azioni messe in atto in risposta al covid-19.

(Per vedere la classifica dei brand clicca qui)

Lo scopo non è solo quello di rendere più consapevole l’acquisto che si sta facendo, ma anche promuovere un senso di attivismo che salvaguardi i diritti umani di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo. Come afferma il report, la mancanza di trasparenza comporta l’incapacità di adottare tempestivamente misure di intervento contro gli abusi nei confronti dei soggetti coinvolti e del pianeta. È bene ricordare, infatti, che trasparenza non significa sostenibilità ma che quest’ultima è raggiungibile solamente attraverso una nitida e comprensibile comunicazione degli impatti sociali e ambientali.

Spesso, parte del problema risiede a monte della catena produttiva che risulta essere complessa e opaca in quanto emergono squilibri tra i compratori e i fornitori e forme di sub-contratto possono compromettere la salute dei lavoratori. Infatti, secondo l’indagine condotta dal Fashion Revolution, sebbene il 62% dei brand intervistati mette in evidenza gli impatti ambientali delle operazioni a valle della filiera, essi non mostrano questi dati a livello di tutta la catena di approvvigionamento, dove si verificano circa l’80% delle emissioni. Altra questione importante, riguarda il fatto che quasi tutti i brand (99%) non rilevano il numero di lavoratori a cui non viene garantito un salario sufficiente per vivere nel proprio Paese. Si tratta, in particolare, di persone provenienti da Bangladesh, India, Cina e Indonesia che sono occupate nella fase di manodopera.

Cosa si può fare, allora, per evitare di alimentare un tale sistema e raggiungere un grado più elevato di trasparenza? Come prima cosa, ci deve essere un reciproco impegno tra il consumatore e l’azienda: ciò che può fare il primo è effettuare un acquisto più consapevole sulla base delle caratteristiche del prodotto in questione, mentre spetta al secondo provvedere a comunicare tali informazioni. Per facilitare questo interscambio, risulta efficace adottare un sistema di tracciabilità delle varie fasi produttive basato sull’utilizzo della blockchain (qui il nostro articolo a riguardo) che può garantire maggiore chiarezza ad ogni livello della catena di produzione fino al consumatore finale. L’Onu stessa è pronta a promuovere una forma di tracciamento da utilizzare come modello per tutte le imprese. (cfr. A global call for full supply chain transparency in the clothing sector).

Ulteriore strumento importante che si sta sviluppando è il così detto passaporto digitale messo a punto da Federico Marchetti (fondatore di Ynap) che, durante il G20 di Roma, insieme ad altri componenti della Fashion Taskforce, ha presentato la nuova iniziativa con lo scopo di fornire al cliente la storia del prodotto che si acquista. Si tratta di delineare in che modo i capi vengono realizzati, come sono stati distribuiti e che tipo di trattamento è stato eseguito. In tal modo, si avrà una visione più completa e veritiera di ciò che si indossa facilitando, di conseguenza, lo sviluppo di un’economia più sostenibile. Similmente, la Responsible Business Coalition, Accenture e Vogue, sta sperimentando l’introduzione di un logo digitale nei siti web da poter poi essere applicato anche sulle etichette stesse dei prodotti fisici che mostra, cliccandoci sopra i criteri ambientali o etici che l’indumento soddisfa (cfr. Impact Index, Vogue).

Se da una parte, come afferma lo studio condotto dal Global Luxury Brands Survey Report, il 70% dei brand analizzati prevede di migliorare i profitti nei prossimi due anni, è bene tenere presente che oltre alle entrate, un fattore determinante sarà rappresentato proprio dal grado di trasparenza aziendale riguardante le politiche, le pratiche e gli impatti a livello ESG (Environmental, Social and Governance).