Sul fatto che il mondo del fashion stia cambiando non ci sono dubbi. Tuttavia, sebbene molte imprese abbiano adottato un approccio direzionale in linea con le nuove prospettive, resta calda la questione riguardante la trasparenza aziendale che ultimamente sta diventando un caposaldo rilevante per il settore moda. Con questo termine si definisce la procedura, più o meno dettagliata, attraverso cui un’azienda decide di comunicare all’esterno tutte quelle caratteristiche e processi che determinano la creazione di un prodotto o servizio, nonché le iniziative e operazioni che si intendono intraprendere per raggiungere la mission di fondo. Non mancano a tal riguardo, riferimenti agli impatti ambientali che ne derivano così come agli interessi sociali rivendicati, quali diritti umani e pratiche di inclusività. All’interno dell’industria del fashion, se in passato tale aspetto veniva posto in secondo piano e non sempre gli veniva attribuita una giusta considerazione, ora risulta essere un fattore determinante per ottenere un vantaggio competitivo all’interno del mercato.

Il consumatore è molto più sofisticato rispetto a qualche anno fa; è incline a conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto che acquista ed è più attento a considerare i risvolti positivi e negativi delle sue azioni. Infatti, la consapevolezza di contribuire indirettamente a ridurre, ad esempio, gli impatti ambientali con l’acquisto di un prodotto sostenibile, genera valore sia per l’azienda sia per il consumatore stesso. Questo comportamento più esigente e selettivo, ha portato le aziende a cercare di comunicare il proprio operato con un approccio più chiaro e trasparente mettendo in luce gli obiettivi e i risultati che vengono raggiunti. Ciò determina un incremento dell’engagement tra l’organizzazione e il cliente che può effettuare un acquisto più cosciente sulla base delle informazioni che riesce a reperire.

Dalla tragedia di Rana Plaza avvenuta nell’aprile del 2013, che mise in luce le pessime condizioni in cui i lavoratori erano sottoposti, diverse iniziative e miglioramenti sono stati intrapresi dall’industria del fashion affinché i diritti umani venissero tutelati e ci fosse una maggiore trasparenza lungo l’intera supply chain. Per incentivare i grandi brand a divulgare una maggiore credibilità e confrontare i diversi livelli di trasparenza, è stato creato il Fashion Trasparency Index che nell’ultimo report del 2021 (cfr. Fashion Revolution) ha analizzato il grado di trasparenza di 250 grandi marchi e rivenditori sulla base di alcuni indicatori raggruppati in 5 macro-aree:

  • Policies and commitments
  • Governance
  • Supply chain traceability
  • Know, show e fix
  • Spotlight sulle azioni messe in atto in risposta al covid-19.

(Per vedere la classifica dei brand clicca qui)

Lo scopo non è solo quello di rendere più consapevole l’acquisto che si sta facendo, ma anche promuovere un senso di attivismo che salvaguardi i diritti umani di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo. Come afferma il report, la mancanza di trasparenza comporta l’incapacità di adottare tempestivamente misure di intervento contro gli abusi nei confronti dei soggetti coinvolti e del pianeta. È bene ricordare, infatti, che trasparenza non significa sostenibilità ma che quest’ultima è raggiungibile solamente attraverso una nitida e comprensibile comunicazione degli impatti sociali e ambientali.

Spesso, parte del problema risiede a monte della catena produttiva che risulta essere complessa e opaca in quanto emergono squilibri tra i compratori e i fornitori e forme di sub-contratto possono compromettere la salute dei lavoratori. Infatti, secondo l’indagine condotta dal Fashion Revolution, sebbene il 62% dei brand intervistati mette in evidenza gli impatti ambientali delle operazioni a valle della filiera, essi non mostrano questi dati a livello di tutta la catena di approvvigionamento, dove si verificano circa l’80% delle emissioni. Altra questione importante, riguarda il fatto che quasi tutti i brand (99%) non rilevano il numero di lavoratori a cui non viene garantito un salario sufficiente per vivere nel proprio Paese. Si tratta, in particolare, di persone provenienti da Bangladesh, India, Cina e Indonesia che sono occupate nella fase di manodopera.

Cosa si può fare, allora, per evitare di alimentare un tale sistema e raggiungere un grado più elevato di trasparenza? Come prima cosa, ci deve essere un reciproco impegno tra il consumatore e l’azienda: ciò che può fare il primo è effettuare un acquisto più consapevole sulla base delle caratteristiche del prodotto in questione, mentre spetta al secondo provvedere a comunicare tali informazioni. Per facilitare questo interscambio, risulta efficace adottare un sistema di tracciabilità delle varie fasi produttive basato sull’utilizzo della blockchain (qui il nostro articolo a riguardo) che può garantire maggiore chiarezza ad ogni livello della catena di produzione fino al consumatore finale. L’Onu stessa è pronta a promuovere una forma di tracciamento da utilizzare come modello per tutte le imprese. (cfr. A global call for full supply chain transparency in the clothing sector).

Ulteriore strumento importante che si sta sviluppando è il così detto passaporto digitale messo a punto da Federico Marchetti (fondatore di Ynap) che, durante il G20 di Roma, insieme ad altri componenti della Fashion Taskforce, ha presentato la nuova iniziativa con lo scopo di fornire al cliente la storia del prodotto che si acquista. Si tratta di delineare in che modo i capi vengono realizzati, come sono stati distribuiti e che tipo di trattamento è stato eseguito. In tal modo, si avrà una visione più completa e veritiera di ciò che si indossa facilitando, di conseguenza, lo sviluppo di un’economia più sostenibile. Similmente, la Responsible Business Coalition, Accenture e Vogue, sta sperimentando l’introduzione di un logo digitale nei siti web da poter poi essere applicato anche sulle etichette stesse dei prodotti fisici che mostra, cliccandoci sopra i criteri ambientali o etici che l’indumento soddisfa (cfr. Impact Index, Vogue).

Se da una parte, come afferma lo studio condotto dal Global Luxury Brands Survey Report, il 70% dei brand analizzati prevede di migliorare i profitti nei prossimi due anni, è bene tenere presente che oltre alle entrate, un fattore determinante sarà rappresentato proprio dal grado di trasparenza aziendale riguardante le politiche, le pratiche e gli impatti a livello ESG (Environmental, Social and Governance).