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Il futuro digitale d’Europa in 15 punti

L’importanza degli strumenti digitali nel mondo del lavoro e delle imprese è giocoforza sempre maggiore, e la situazione di emergenza legata alla recente epidemia Covid-19 ha notevolmente contribuito ad accelerare la transizione al digitale (o a far emergere più rapidamente le necessità di tale transizione in vari campi) e ad ampliare il dominio delle loro applicazioni. Tutto ciò si è però innestato all’interno di uno scenario più ampio di cambiamenti di tecnologie e di abitudini lavorative che coinvolge l’intera Europa, ed a cui già da tempo gli organismi istituzionali del vecchio continente stanno rivolgendo le loro attenzioni. La Commissione Europea ha stilato un piano quinquennale (2019-2024) per l’innovazione digitale che richiederà sempre più la partecipazione dei soggetti utilizzatori (cittadini, istituzioni, aziende), con il proposito di guidare l’implementazione di nuove tecnologie al fine di un maggiore coinvolgimento sociale e di permettere l’apertura di nuove opportunità, anche economiche e di intrapresa privata.

Ma quali sono i punti cardine del piano con cui le istituzioni europee intendono plasmare il futuro digitale d’Europa? Inquadrando le linee-guida in tre grandi macro-aree (“Tecnologia a servizio delle persone”, “Economia digitale equa e competitiva” e “Società aperta, democratica e sostenibile”) la Commissione mantiene un profilo comunicativo dalla retorica alta, etica e onnicomprensiva, ma le varie iniziative che ne derivano, declinate in senso pratico, celano dei particolari interessanti e indicativi sul comportamento delle imprese operanti nell’area Euro e sulle tendenze future cui allinearsi per un cambiamento di successo, in senso digitale, della cultura aziendale, delle abitudini lavorative e, volendo, degli investimenti privati in innovazione.

Cerchiamo dunque di sintetizzare in 15 punti tali iniziative per la digital transformation:

  1. Investire nelle competenze digitali dei cittadini e dei lavoratori.
  2. Proteggere i soggetti pubblici e privati dalle minacce informatiche.
  3. Garantire uno sviluppo dell’Intelligenza Artificiale rispettoso delle persone.
  4. Accelerare la diffusione delle infrastrutture di rete (banda larga ultraveloce).
  5. Accrescere la capacità di calcolo in settori cardine come medicina, trasporti e ambiente.
  6. Aiutare PMI e start-up, anche mediante finanziamenti per la digital transformation.
  7. Proporre una “legge sui servizi digitali” per responsabilizzare le piattaforme on-line.
  8. Aggiornamento delle normative vigenti ai nuovi scenari digitali.
  9. Garantire concorrenza e pari diritti per le imprese.
  10. Migliorare l’accesso ai dati, mantenendo la privacy.
  11. Raggiungere un impatto climatico “zero” entro il 2050, anche grazie alle tecnologie digitali.
  12. Ridurre le emissioni di carbonio.
  13. Aumentare il controllo dei soggetti sui loro dati.
  14. Creare uno spazio europeo unico di dati sanitari.
  15. Combattere la disinformazione on-line.

Ciò si può tradurre, in termini di vantaggi per le imprese, in nuove opportunità in una società digitalizzata, ad esempio è fondamentale investire in strumenti che consentano l’accesso a dati industriali di qualità per ottimizzare la produzione, oppure poter operare in uno scenario in cui vi sia un equo accesso ai mercati, specialmente on-line, anche grazie a regole sulla concorrenza adatte allo scopo. Risulta altresì importante investire non solo nelle infrastrutture, ma anche nelle persone (lavoratori con scarse competenze digitali possono essere un ostacolo alla crescita delle imprese, mentre sempre nuove competenze saranno necessarie per utilizzare gli strumenti digitali). Infine si registra una particolare attenzione al sostegno imprenditoriale per l’uso dell’Intelligenza Artificiale, che si traduce in promozioni di connettività avanzata, sistemi sicuri di Cloud-data, creazione di poli specializzati nell’innovazione digitale, sia a livello di ricerca che per la formazione di consulenti, e infine in un migliore, più facile e più mirato accesso ai finanziamenti.

In sostanza, gran parte dei cambiamenti in seno alle aziende europee, volti anche a coinvolgere i lavoratori nelle loro attività ed ampliare le loro competenze, sono destinati a passare attraverso investimenti nella digital transformation.

Smart Working: gli strumenti che ottimizzano la produttività aziendale

Molte aziende sono state costrette ad adottare in tempi molto brevi lo smart working, a causa dell’emergenza Coronavirus che l’Italia ha dovuto fronteggiare nel corso degli ultimi mesi. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali definisce lo smart working (o lavoro agile) come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Molti si aspettavano che questa modalità di esecuzione del rapporto di lavoro venisse utilizzata dalle aziende soltanto nel periodo più critico del lockdown, ma così non è stato. Centrale nella fase della piena emergenza, lo smart working sta continuando a fare da perno anche alla “Fase 2” che sta riguardando il paese.

 

Strumenti tecnologici per lo Smart Working

Esistono ormai numerosi software e tecnologie che facilitano lo smart working ed orientarsi fra questi non è facile. L’obiettivo primario di questi strumenti tecnologici è quello di stabilire una connessione tra persone “remote” per agevolare la condivisione e lo svolgimento dei processi lavorativi, per distribuire e condividere documenti e informazioni in modo immediato e soprattutto sicuro. Quando si parla di tecnologie per lo smart working si fa riferimento sia alle piattaforme software sia ai device utilizzati o messi a disposizione dall’azienda. Per ottimizzare i processi operativi è necessario che le aziende utilizzino piattaforme dotate di una serie di funzionalità che consentano alle persone di svolgere la propria attività in team nel modo più efficace possibile, mediante videoconferenza e messaggistica istantanea, ma anche tramite condivisione di contenuti, possibilità di lavorare contemporaneamente sugli stessi file, evidenziando quali siano i task prioritari e così via.

Il mercato offre ormai una gamma molto ampia di piattaforme specializzate, di seguito raggruppate per funzione-obiettivo:

  • Cloud Storage (Google Drive, Dropbox, One Drive…)
  • Software per VoIP (Skype, Google Duo…)
  • Software per Videoconferenze (Google Meet, Zoom, Whereby…)
  • Software di Collaboration (Teams, Facebook Workplace…)
  • Software per Project Management (Asana, Trello, Teamwork…)
  • Software Remote Desktop (Team Viewer, AnyDesk…)

 

Microsoft Teams, piattaforma in crescita

Teams è l’hub di collaborazione di Microsoft che aiuta il tuo team a gestire in maniera ottimale il lavoro di gruppo da remoto, gestendo le comunicazioni in unica piattaforma, creando un ambiente di collaborazione all-in-one semplice ed intuitivo. Microsoft Teams è un esempio, già molto diffuso, di strumento cloud di collaborazione per lo smart working, dal momento che consente di comunicare, organizzare meeting ed eventi live, collaborare e condividere file e app in sicurezza, tutto in un unico luogo virtuale.

La sua interfaccia offre le seguenti funzionalità:

  • Chat: permette di comunicare con il team e rimanere sempre aggiornato grazie alle funzionalità di chat e ricerca.
  • Videochiamate: permette di incontrare da remoto tutto il team con videochiamate e chiamate audio tra due persone o in gruppo, con la possibilità di condividere lo schermo o specifici tab.
  • Spazio di archiviazione dei documenti: ottieni spazio di archiviazione di file del team e spazio di archiviazione di file personali.
  • Collaborazione con Office 365: permette di collaborare usando le applicazioni di Office preferite, tra cui Word, Excel, PowerPoint e OneNote, integrando al suo interno anche il calendario di Outlook e funzionalità kanban per la gestione di progetti (Planner).

Teams consente a singoli team/uffici di organizzarsi e collaborare nei i vari scenari aziendali:

  • Team:sono una combinazione di persone, contenuti e strumenti intorno a vari progetti e obiettivi all’interno di un’organizzazione.
  • Canali:sono sezioni dedicate all’interno di un team allo scopo di mantenere le conversazioni organizzate su specifici argomenti, progetti, discipline ecc. I file che vengono condivisi nel canale vengono archiviati in SharePoint.

 

Un tassello nel mosaico della digital transformation

Il punto di forza principale di questo genere di prodotti è che si tratta di piattaforme all-in-one che permettono di integrare facilmente altre applicazioni al loro interno. Spesso sono customizzabili a seconda delle varie esigenze e permettono alle aziende di sfruttare un “cruscotto” di lavoro dal quale è possibile monitorare e svolgere praticamente tutte le attività quotidiane. Si tratta infatti di strumenti informatici in costante aggiornamento (Microsoft, ad esempio, ha di recente presentato una serie di nuove funzionalità che verranno implementate nel corso dei prossimi mesi con lo scopo di rendere le interazioni virtuali più naturali e più coinvolgenti dal punto di vista umano. I dettagli di queste nuove funzionalità sono visibili al seguente link).

Mas Management Network offre servizi di formazione e consulenza per le aziende che necessitano di essere supportate nella transizione verso questi nuovi strumenti, in un ottica più generale di digital transformation che deve giocoforza comprendere anche cambiamenti organizzativi, una certa consapevolezza delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie ed un piano per implementarle (digital strategy), nonché il rinnovamento della cultura aziendale e dei metodi di lavoro.

Demand Planning: linee guida per la resilienza

L’emergenza Covid-19 rende evidenti gli impatti negativi delle crisi sull’operatività delle aziende manifatturiere relativamente all’organizzazione della loro supply chain, ed in particolare sulla previsione della domanda aggregata, inducendo modifiche alle strategie di demand planning.

Laddove i brand non possono direttamente prevedere gli shock di mercato, v’è comunque la possibilità di un riposizionamento strategico mirato a ridurre il più possibile i costi dovuti all’interruzione prolungata delle normali dinamiche di vendita, nonché le tempistiche per un pieno recupero (in assenza di ulteriori perturbazioni, si stima che circa il 60% delle imprese abbia le potenzialità per un ritorno alla normale operatività entro 6 mesi, ed oltre l’80% entro un anno). Cionondimeno, emerge l’urgenza sempre maggiore di dotarsi di un sistema di operations efficace e dinamico, soprattutto per quel che concerne la pianificazione degli approvvigionamenti, in quanto le crisi sistemiche, specialmente quando imprevedibili, coinvolgono l’intera filiera produttiva, ed anche aziende ben organizzate possono trovarsi in difficoltà in conseguenza della pur temporanea crisi dei loro fornitori e della variabilità della domanda dei prodotti nel breve e medio periodo.

Ma diventare più resilienti alle fluttuazioni di mercato non deve significare necessariamente una diminuzione dell’efficienza produttiva, anzi: le imprese hanno oggi l’opportunità di uscire dalla crisi più agili ed innovative, in particolare grazie alle nuove tecnologie messe al servizio di una corretta pianificazione, laddove venga perseguito l’obiettivo di rendere quest’ultima meno rigida, più dinamica e snella, ed in tal modo meno vulnerabile alle criticità dei cambiamenti repentini (soprattutto considerando che gli shock della produzione globale stanno diventando più intensi e frequenti, in conseguenza di incertezze geopolitiche, attacchi dei sistemi digitali ed altri fattori imponderabili come il Covid-19). Infatti i network produttivi allargati, laddove le supply chain sono più vaste e globali, offrono giocoforza maggiori appigli alla diffusione di crisi sistemiche. Quelle di durata superiore ad un mese occorrono ormai, in media, quasi ogni 3 anni, e ogni 5-7 anni quelle superiori ai 100 giorni; sebbene non siano sempre prevedibili è bene che le aziende si premuniscano di contromisure razionali per fronteggiarle. Ciò vale specialmente per alcune realtà manifatturiere che sono guidate da variabili artistiche e stilistiche che influenzano in modo determinante la domanda e che sfruttano una catena del valore incentrata sulle lavorazioni specializzate, come ad esempio le aziende del fashion e in generale del lusso.

Nella maggior parte dei casi, il demand planning si affida all’analisi dei dati storici per sviluppare i suoi modelli previsionali, impattando così sulla produttività mediante l’organizzazione della produzione. Le attività chiamate generalmente operations sono, da questo punto di vista, strettamente collegate tra loro. Interruzioni nella supply chain, indipendenti dall’operatività quotidiana della manifattura, possono risultare particolarmente disruptive, specialmente quando gli andamenti della domanda non seguono pattern prevedibili con sufficiente anticipo. In tali casi, la vulnerabilità delle imprese ai cambiamenti può venire amplificata da scelte strategiche e operative limitanti, come ad esempio l’eccessivo affidamento alla produzione just-in-time, un insufficiente pool di fornitori o addirittura la presenza di fornitori insostituibili, un livello troppo alto di customizzazione del prodotto, una spiccata concentrazione geografica dell’export e/o della catena produttiva.

Se si vuole evitare una corsa alla delocalizzazione degli impianti produttivi, è possibile abbracciare riforme atte ad aumentare la resilienza, che possono includere ad esempio un rafforzamento della capacità di gestione del rischio, una maggiore ridondanza nella rete di fornitura e logistica, un aumento delle scorte (laddove possibile), investimenti per livellare la complessità del prodotto finale o per incrementare la flessibilità della produzione nei vari stabilimenti.

Tuttavia, nei tempi più recenti, si tende anche a scommettere su soluzioni più rapide e con un maggiore rapporto tra efficacia e costo/difficoltà del cambiamento.

Si tratta, nella fattispecie, di soluzioni che incidono sull’organizzazione del lavoro e che fanno quasi sempre uso si nuove tecnologie. Migliorare la capacità operativa e finanziaria per rispondere agli shock e riprendersi velocemente da una crisi passa necessariamente per una ristrutturazione organizzativa in ambito operations.

In particolare, per il demand planning gli esperti individuano alcune tattiche per aiutare nella gestione della produzione e delle scorte:

  1. Aggiustare la frequenza delle pianificazioni di produzione e puntare su data analytics e business intelligence: è necessario aumentare la cadenza degli aggiustamenti della pianificazione, che può essere rivista anche 2-4 volte ogni mese (a seconda del settore); contestualmente, ristrutturare i processi e sfruttare le nuove tecnologie digitali, in un’ottica di monitoraggio continuo.
  2. Focalizzare gli sforzi sui core products e sui clienti principali: molti grossi brand e numerosi rivenditori effettuano tagli alla numerosità degli SKU e riducono all’essenziale le linee di prodotti durante i periodi di crisi, per poi aumentare di nuovo a seconda della domanda, in modo dinamico e veloce.
  3. Inventare qualcosa di nuovo: se è difficile gestire gli approvvigionamenti classici, può essere utile offrire al consumatore alternative rapide, la cui produzione possa risultare più spedita e semplice adattandosi a ciò che è più facile reperire e trasformare in fasi anomale di mercato. Questo aspetto dev’essere limitato a pochi prodotti, la cui creazione dev’essere pianificata in modo snello, ma il suo impatto sulle operations determinerà miglioramenti anche nel medio/lungo periodo; si tratta di sfruttare la crisi come un’opportunità per introdurre logiche Agile.

Migliori strategie di pianificazione degli approvvigionamenti e della produzione passano necessariamente attraverso l’uso di strumenti innovativi: non si può prescindere in questi casi dalla digital transformation, implementando, oltre a nuovi processi, anche tecniche più sofisticate di data analysis, big data management e business intelligence, che sono attualmente il mezzo più efficace per rafforzare la resilienza entro scenari di incertezza delle forniture e, soprattutto, della domanda, sempre alle prese con le priorità momentanee dei consumatori, figlie oltretutto dei loro stili di vita e visioni del mondo in costante cambiamento.

L’introduzione di questi strumenti innovativi però non deve essere vista come l’unica ancora di salvezza: l’integrazione di PLM, ERP, MRP e MPS e delle logiche di gestione delle operations lungo tutta la supply chain (comprendendo fornitori, terzisti e canali distributivi) rimane la base su cui innestare una serie di attività e strategie mirate a rendere la catena manifatturiera più resiliente, e proprio per questo, più efficace ed efficiente.

Vincenzo Morello

Vincenzo Morello

Consulente MAS

Si occupa di Operations, Digital Innovation e Project Management nell’ambito di programmi di innovazione aziendale nei settori del fashion, del lusso e della produzione manifatturiera. Precedentemente si è dedicato ad attività di integrated reporting ed ha occupato posizioni di responsabilità nel settore retail/commerciale del mercato Fashion. E’ laureato in Business Administration presso l’Università degli studi di Padova.

I 10 trend evolutivi del Big Data management

Gli ultimi anni hanno visto una forte evoluzione del mercato dei Big Data Analytics: un mercato che, secondo le stime dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano, nel 2019 solo in Italia ha raggiunto un valore di oltre 1,7 miliardi di euro, con un tasso di crescita del 23% rispetto al 2018 e oltre il doppio rispetto al 2015. Cresce sempre di più infatti nelle organizzazioni la consapevolezza che una strategia di gestione dei dati di tipo data-drivenness porti a migliori risultati di business, in quanto capace di estrarre dalle informazioni “valore” utile per indirizzare le decisioni organizzative.

In questa direzione sembra muoversi anche la Commissione Europea con l’adozione dell’European Strategy for Data, iniziativa che, partendo dal presupposto che i dati costituiscono l’elemento chiave della trasformazione digitale, mira a sviluppare una cultura del data management per consentire il miglior uso possibile dei dati digitali a vantaggio della società e dell’economia europea. Un approccio organizzativo di tipo data-drivenness è diventato quindi un imperativo più che un obiettivo per le aziende, al fine di mantenere ed accrescere la propria competitività.

Ma quali sono i prossimi passi dell’innovazione in ambito Big Data? Secondo Gartner, le principali evoluzioni in corso nell’ambito dei Big Data Analytics si possono riassumere nei seguenti 10 trend:

  1. AI (Intelligenza Artificiale) più veloce, intelligente e responsabile: si stima che entro la fine del 2024 l’utilizzo di infrastrutture di AI da parte delle imprese aumenterà di 5 volte. Un’AI più responsabile renderà possibile una migliore collaborazione uomo-macchina e porterà a una maggiore trasparenza, essenziale per proteggere le organizzazioni da decisioni sbagliate. Ad esempio, nell’attuale contesto di epidemia Covid-19, tecniche di AI come ML (Machine Learning) e NLP (Natural Language Processing, strumento che rende possibile effettuare query tramite ricerca vocale) stanno fornendo un valido supporto nella previsione sulla diffusione del virus e sull’efficacia delle contromisure.
  2. Declino delle Dashboard: data stores dinamici sostituiranno via via le dashboard in utilizzo, consentendo agli utenti di accedere in modo sempre più veloce alle informazioni.
  3. Decision Intelligence: entro il 2023, il 33% delle grandi organizzazioni avrà analisti dedicati alla decision intelligence, la quale, abbracciando molteplici discipline tra cui decision management e decision support, fornisce una serie di strumenti atti ad aiutare il management nel mettere a punto, eseguire e monitorare modelli decisionali.
  4. Uso di “X analytics”: con il termine “X analytics” Gartner fa riferimento a una vasta gamma di contenuti strutturati e non, come text analytics, video analytics, audio analytics, che, uniti a tecniche di AI ed altri strumenti, possono supportare decisioni in svariati ambiti.
  5. Augmented Data Management: tramite l’utilizzo di tecniche di ML e AI l’Augmented Data Management consente di ottimizzare efficienza e produttività delle operazioni di gestione dati, aumentandone l’automazione.
  6. Cloud: diventa sempre più essenziale per le aziende l’utilizzo dei servizi di Cloud pubblico, il quale fornisce capacità di calcolo, di storage, piattaforme di sviluppo e software ready-to-use in grado di facilitare le attività di analisi dei dati, consentendo al tempo stesso di ottimizzare i costi.
  7. Collisione di Data e Analytics: questi due mondi, tradizionalmente considerati distinti e separati, tendono a convergere sempre di più. Ciò porterà a ripensare agli strumenti utilizzati, ai ruoli e ai processi, che dovranno prevedere una maggiore collaborazione tra le due funzioni.
  8. Data marketplace: entro il 2022, il 35% delle grandi organizzazioni sarà o venditore o acquirente di dati tramite mercati di dati online formali, rispetto al 25% nel 2020.
  9. Blockchain in Data e Analytics: si stima che entro il 2021 gran parte delle tecnologie di blockchain sarà sostituita da strumenti relativi a DBMS (Database Management Systems).
  10. Relazioni: Entro il 2023, le graph technologies, che consentono di esplorare in modo intuitivo le relazioni tra i dati, faciliteranno i processi di decision making nel 30% delle organizzazioni di tutto il mondo.

In conclusione, possiamo supporre che in un contesto sempre più incerto ma caratterizzato al tempo stesso dalla disponibilità di strumenti sempre più innovativi, il mercato dei Big Data Analytics non può che continuare a crescere, confermando il trend positivo degli scorsi anni e accrescendo sempre di più il valore apportato alle imprese.

Approfondiamo il concetto di “smart working”

La recente emergenza legata al Coronavirus ha forzatamente sottoposto all’attenzione di tutti la questione dello smart working: un modello organizzativo in grado di portare notevoli vantaggi alle organizzazioni che lo adottano, in termini di produttività, raggiungimento degli obiettivi, ma anche in termini di welfare e qualità della vita del lavoratore. Tuttavia approfondire il significato di smart working non è immediato e nemmeno così intuitivo: il concetto resta ancora oggi ambiguo e dev’essere meglio definito. Fare smart working non vuol dire semplicemente “lavorare da casa”. Mentre la digital transformation non è un mero progetto, quanto piuttosto un avvicinamento continuo a tecnologie in evoluzione, fare smart working significa anche imparare a lavorare per progetti e introdurre strumenti condivisi per la pianificazione aziendale. Essendo l’imperativo “basta cartellino”, dinamicità, flessibilità, digitalizzazione e raggiungimento di obiettivi produttivi concordati diventano il nuovo focus, perdendo ovviamente di importanza la presenza fisica dei lavoratori in azienda.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano definisce la pratica dello smart working come una filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’azienda che si basa su quattro pilastri fondamentali: revisione della cultura organizzativa, flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro, dotazione tecnologica e nuovi spazi fisici. Il lavoro Agile è sinonimo di benessere e produttività dei dipendenti, nonché di riduzione delle emissioni. Come si evince da questa definizione, lo smart working va ben oltre il concetto di “telelavoro”. Se infatti quest’ultimo si configura come una vera e propria forma contrattuale, il lavoro Agile rappresenta un accordo tra lavoratore e organizzazione all’interno del rapporto di lavoro subordinato. Le due forme di remote working si differenziano soprattutto in termini di flessibilità e autonomia. Nello smart working, è il lavoratore a scegliere luoghi e orari di lavoro, laddove le regole imposte dal “telelavoro” sono invece abbastanza rigide e prestabilite.

Altro aspetto non secondario, dei quali molti non sono a conoscenza, è che lo smart working in Italia è legge. Dopo un primo periodo sperimentale caratterizzato da vuoti legislativi, parecchia confusione terminologica e discreta anarchia, la Legge n.81 del 22 maggio 2017 (anche detta Legge sul Lavoro Agile) ha finalmente regolato la materia del lavoro da remoto. Le sue direttive sono anche state recentemente ribadite dai DPCM dell’8 marzo, 9 marzo e 22 marzo 2020 in conseguenza dell’epidemia Covid-19.

Considerando la crescente diffusione della filosofia del Lavoro Agile è bene chiedersi allora se le aziende stiano considerando tutti gli elementi fondamentali nel modello. Ogni progetto di smart working, infatti, per avere successo, richiede di considerare contemporaneamente competenze diverse in azienda, modalità di gestione di team di lavoro a distanza, individuando obiettivi specifici, misurabili e definiti nel tempo, e di agire in modo sistemico su diverse leve di progettazione. Essenziale è la complementarietà tra soluzioni tecnologiche adottate, il ripensamento degli spazi e lo sviluppo di competenze e di una cultura aziendale orientata ai risultati. Tecnologie, competenze, spazi e cultura sono insomma le fondamenta alla base di ogni buona pratica di smart working. È necessario dunque un cambio di mentalità importante, nella formazione del personale e nel ruolo dei dirigenti, che porti ad un processo di cambiamento complessivo. Ciò richiede manager con capacità di delega, capacità di utilizzare strumenti adeguati al monitoraggio delle attività e alla valutazione delle performance, ma soprattutto capacità di motivare gruppi di lavoro geograficamente dislocati.

Un ultimo punto da considerare è che ai dipendenti lavorare da casa piace. Un’indagine condotta da CGIL su oltre 6.000 lavoratori ha messo in evidenza l’apprezzamento della maggioranza (oltre il 60%) per il lavoro da casa. Allo stesso risultato è giunta anche una ricerca della società di consulenza Variazioni: la somma di chi ha vissuto bene il lavoro da casa e di chi ne è rimasto addirittura entusiasta ammonta ad una netta maggioranza (sopra l’80% degli intervistati)!

Big Data: un alleato per la ripresa

L’analista di mercato Doug Laney agli inizi degli anni 2000 ha esplicitato il termine Big Data attraverso tre proprietà, denominate le tre V: Volume, Velocità e Varietà. La definizione cerca di cogliere tutti gli aspetti del gran volume di dati, non necessariamente strutturati, che inondano le aziende ogni giorno. Coloro che si occupano dei Big Data si servono tipicamente di apposite tecniche computazionali e di analisi molto complesse, senza contare che alcuni topics sono ancora oggetto di ricerche. Queste strutture informative, infatti, sprigionano il massimo della forza nel prodotto delle loro analisi, specialmente in un contesto aziendale nel quale risulta fondamentale avere informazioni di valore che portino a decisioni migliori e a mosse strategiche di business.

Con la combinazione di Big Data e analytics, infatti, si possono ottenere risultati nelle più svariate applicazioni, come ad esempio determinare le cause di guasti, problemi e difetti in tempo reale, generare coupon presso i punti vendita in base alle abitudini d’acquisto dei clienti, ricalcolare interi rischi di portafoglio in pochi minuti o rilevare un comportamento fraudolento prima che colpisca l’azienda. A seguito della recente epidemia Covid-19, in uno scenario economico-finanziario molto incerto, l’Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari ha dato il via ad una ricerca per avere una misura di incertezza e per capire come questa si riversi sul mercato.  La difficoltà di prevedere gli sviluppi futuri si riflette e si amplifica sui mercati finanziari, fomentando paura e perdita di valore delle aziende. L’idea interessante di questo studio è la rappresentazione del sistema economico-finanziario attraverso un network, unendo così i principi dello studio di reti sociali a quelli economici e dando luogo a nuovi strumenti di analisi attraverso la valutazione della struttura del sistema prima della pandemia, e quindi fornire strategie per la ripresa e il consolidamento nelle fasi successive al lockdown.

L’Osservatorio Big Data Analytics del Politecnico di Milano nel 2018 ha appurato che il peso di attività correlate nelle piccole e medie imprese sul mercato italiano è fermo al 12% del totale. Questa quota risulta irrisoria contestualizzandola nell’intero panorama industriale, in cui le PMI occupano quasi l’intera scena; ma, analizzando i motivi della mancata diffusione dell’uso dei Big Data nelle PMI in un contesto aziendale di media-piccola grandezza, si evidenzia una difficoltà di stima dei benefici degli investimenti e una mancanza di competenze specifiche – ciò che risulta ancora più rilevante considerando il dato relativo al GDPR (Genral Data Protection Regulation) per cui solo una PMI su 10 ritiene critica la gestione degli aspetti di security e privacy. Cercando di approfondire maggiormente i risultati delle analisi dell’Osservatorio Big Data, si evince che negli ultimi anni il mercato delle PMI sta pian piano aderendo al mercato Analytics (che nel 2018 cresce del +26%), dando luogo a 5 gruppi di PMI che possiamo discriminare in base al grado di integrazione e al know how delle analisi tecnico informatiche, ovvero aziende tradizionali (10%), in preparazione (31%), inconsapevoli o bloccate (42%), pronte (10%) e lanciate (7%).

Per le imprese del territorio c’è dunque ancora molta strada da percorrere, ma a seguito della grande pausa causata dall’epidemia Covid-19 la ripresa può tratte beneficio anche dai Big Data, per i quali il ruolo di una solida struttura di collezionamento e analisi dei dati giova alle aziende e permette loro di migliorarsi e di adeguarsi al mercato in tempi record.

Fashion: il sistema Moda Italia si conferma ancora protagonista

Fonte: www.mbres.it

E’ stato recentemente pubblicato il report 2014-2018 dell’Area Studi di Mediobanca relativo alle maggiori aziende del sistema Moda, sia italiane (173 aziende con fatturato superiore ai 100 milioni di euro) che europee (46 grandi gruppi con fatturato superiore ai 900 milioni di euro). Lo studio conferma anche per l’anno 2018 un trend di crescita sia del fatturato che occupazionale, con alcuni corollari interessanti che aiutano a comprendere l’evoluzione del settore.

Il giro d’affari totale in Italia si assesta infatti attorno ai 72 miliardi di euro (+9,4% rispetto al 2015), viaggiando così negli ultimi anni ad una velocità circa doppia rispetto alla crescita del PIL, a testimonianza del fatto che stiamo parlando di un settore di traino dell’economia (anche l’occupazione è aumentata, sebbene con una leggera flessione negli ultimi due anni). Andando un po’ più a fondo si scorge che, a livello di ricavi, emergono i comparti abbigliamento (42,6% del totale), pelletteria (23,1%) e occhialeria (15,6%), mentre si distinguono come crescita delle vendite i settori della gioielleria, del tessile, della pelletteria e delle calzature. Ciò indica anche una preminenza delle grandi realtà nei comparti maggiormente in espansione nel nostro paese per ciò che riguarda il mercato del lusso.

Per quanto riguarda la proprietà dei brand, si consolida la presenza di attori stranieri, i quali controllano il 34,7% del fatturato aggregato; essi sono soprattutto di nazionalità francese (14,2% del fatturato), specificamente per la presenza di due grandi gruppi multinazionali, ovvero Kering e LVMH. Cionondimeno, le società a controllo italiano primeggiano per redditività sui gruppi stranieri (ebit al 9,3% rispetto al 6,2%), in particolare per quanto concerne le aziende quotate in borsa ed a conduzione familiare. Queste ultime sono anche le più propense all’esportazione in settori comunque molto dipendenti dalla clientela straniera: infatti la quota parte del loro fatturato derivante dall’export è pari all’86,1%.

Lo scenario europeo è anch’esso dominato dalle grandi multinazionali, e sebbene il peso dell’Italia sia inferiore a quello di Germania, Regno Unito e Francia (quest’ultima è nettamente la capofila, con il 34,6% del fatturato aggregato), il nostro paese è comunque il più rappresentato a livello numerico (14 grandi realtà).

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? Il Fashion italiano continuerà a crescere fino a raggiungere e superare quota 80 miliardi di euro, e buona parte di questa crescita sarà trainata dalla visibilità e dalla reputazione on-line dei brand, i quali dovranno giocoforza adottare complesse Digital Strategy e approfondire temi quali la sostenibilità, l’ambiente, l’etica del lavoro e l’economia circolare, oltre a confermarsi in termini di affidabilità e qualità del prodotto.

Industria 4.0 e incentivi 2020

L’Industria 4.0 si estende oggi a tutti i livelli aziendali, generando la necessità di cambiamenti organizzativi, di processi e di funzioni sotto il segno della Digital Transformation. Questo percorso, iniziato ormai già da qualche anno e comprendente iniziative del governo volte ad incentivare la trasformazione tecnologica delle imprese (sottoforma, fino allo scorso anno, di super e iperammortamento), è destinato a continuare anche nel 2020, sebbene con modalità leggermente diverse.

Ad esempio, come previsto dall’ultima Legge di Bilancio per il 2020, l’acquisto di nuovi macchinari digitali ed interconnessi al sistema informatico di fabbrica, unitamente ai software che ne permettono il funzionamento, invece che con l’iperammortamento degli anni scorsi viene oggi agevolato con un credito d’imposta: esso si può applicare agli investimenti effettuati nel 2020 (oppure, similmente ai precedenti periodi d’imposta, ad investimenti effettuati entro il 30 giugno 2021, a condizione che l’ordine risulti accettato dal fornitore entro il 31 dicembre di quest’anno, e con il pagamento di un acconto di almeno il 20% del costo totale).

A quanto sembra, è destinata a rimanere una divisione delle quote incentivabili a scaglioni d’investimento per i beni compresi nell’allegato A della legge 232/2016: credito d’imposta del 40% fino a 2,5 milioni di euro e del 20% oltre tale ammontare, sino ad un massimo complessivo di 10 milioni di euro. Di fatto le differenze sostanziali col precedente regime di benefici sono minime, almeno fino a questa cifra, cambiando solo le modalità di ripartizione pluriennale.

Al di là però dei benefici economici immediati, il tema dell’Industria 4.0 abbraccia un perimetro d’azione molto ampio, non limitandosi solo all’ammodernamento degli impianti produttivi ed ai sistemi informativi per l’interconnessione, bensì si propone anche di modificare il modo in cui le aziende generano, raccolgono ed utilizzano dati, ottenendo informazioni utili e prendendo di conseguenza delle decisioni che possono avere un grosso impatto sull’operatività, in particolare per il raggiungimento di un soddisfacente livello di maturità digitale a tutto tondo, riguardante l’intera struttura aziendale nel suo complesso; poiché è in questa direzione di completa integrazione che si sta muovendo il mondo delle imprese manifatturiere.

Di concerto con lo sfruttamento di strumenti informatici sempre più avanzati, in ottica 4.0 è bene che le imprese rimangano al passo anche innovando e migliorando i processi di lavoro, gli assetti organizzativi e le scelte direzionali in modo coerente, allo scopo di raggiungere appunto una quanto più possibile completa ed efficiente integrazione digitale. L’implementazione di una precisa digital strategy che possa coniugare politiche di innovazione con la valorizzazione del know-how, anche di tipo tradizionale, e del talento, appare dunque come il viatico principale per imboccare la strada del miglioramento continuo, in sinergia con le nuove tecnologie adottate. Beneficiare degli incentivi di Industria 4.0, verosimilmente guidati da esperti del settore, è sicuramente un primo passo verso tale direzione di innovazione e cambiamento.

Gestire l’eredità culturale d’impresa con gli Archivi Digitali

Negli ultimi anni si registra un crescente interesse ed una nutrita letteratura specialistica riguardo alla gestione delle informazioni relative alla preservazione dell’eredità culturale d’impresa, specialmente nei settori in cui questo tema è maggiormente sentito (brand e marchi storici, manifattura di alta qualità, prodotti artistici o legati al mondo della creatività, della moda e del fashion). L’eredità culturale può essere definita come il retaggio di artefatti tangibili o intangibili relativi ad un gruppo sociale, che viene tramandato dalle generazioni del passato a quelle di oggi; non solo una questione di prodotto, quindi, ma anche di tradizioni estetiche e di gusto in senso lato, di progetti e ricette, di pubblicità e slogan, di mode e tendenze storiche.

In questo senso si è mossa anche l’Unione Europea, attivando nel recente passato un gran numero di progetti su larga scala per intervenire sugli aspetti della cultura storica d’impresa e per incentivare le aziende del vecchio continente ad interessarsi ed a sviluppare questa tematica all’interno della propria realtà di lavoro specifica, e cercando così di calare i princìpi teorici dell’eredità culturale in attività concrete per creare valore (si pensi, a titolo esemplificativo, ad iniziative come Europeana, C.h.e.s.s., Emotive Project, Cross-cult ecc.). L’Italia, a livello nazionale ma soprattutto tramite progetti e bandi regionali, si è presto allineata a queste direttive, creando opportunità per la realizzazione di lavori sulla cultural heritage delle imprese, anche mediante finanziamenti ad-hoc.

In tale contesto, uno dei principali punti di attenzione è costituito senza dubbio dalle innovazioni tecnologiche in campo digital, in grado di creare sinergia tra le componenti di know-how tradizionale, archivi fisici storici e nuove modalità di fruizione di contenuti, sia a livello di marketing che di processi produttivi, sia all’interno che all’esterno del perimetro d’azienda. Database, cloud, automazioni, applicazioni informatiche di ultima generazione e soprattutto strumenti per la gestione delle informazioni e degli asset digitali (chiamati DAM, ovvero Digital Asset Management) sono oggi ad un livello tale da permettere un profondo sfruttamento di ogni tipo di istanza storico-culturale anche per singole realtà imprenditoriali che ritenessero utile valorizzare la propria eredità peculiare.

Com’è intuibile, al centro di queste attività si inserisce il tema degli Archivi Digitali: la situazione di avere un archivio di materiale storico da censire, poter ritrovare e sfruttare è tipica di ogni impresa che porti con sè un bagaglio culturale che può identificarne il marchio, plasmarne la percezione all’esterno e testimoniare una tradizione di eccellenza; molto spesso ciò prende il via a partire dalla presenza di un magazzino contenente oggetti storici (vecchi prodotti, manufatti, semilavorati, ma anche progetti, documentazione tecnica e amministrativa, fatture o addirittura semplici fotografie, riviste, brochure e pubblicità) che vanno digitalizzati.

Questo genere di progettualità per la valorizzazione dell’eredità culturale necessita, oltre ad una decisa spinta a livello dirigenziale (il tema è sempre più avvertito come importante anche in realtà medio-piccole), anche la partecipazione di figure competenti interne ed esterne all’azienda, impegnate il più delle volte a livello interdisciplinare, nonché di strumenti tecnologici e informatici adeguati. Collaborano così in un frame di lavoro esperti di gestione delle informazioni, archivisti, specialisti di nuove tecnologie, tecnici di settore e addetti al marketing ed al customer service.

Si tratta quindi di progetti complessi dal punto di vista dell’organizzazione dei lavori, sovente continuativi nel tempo (un archivio digitale acquisisce valore se mantenuto ed aggiornato, e non dovrebbe mai essere considerato un’attività una-tantum), che hanno però le potenzialità per essere sfruttati anche nel futuro, soprattutto in epoca di dominio dei media e delle comunicazioni, configurandosi così come investimenti vincenti nel medio termine.

Le opportunità non mancano: al business che guarda lontano non rimane che coglierle per perseguire i propri obiettivi strategici in ambito digitale.

Le conseguenze organizzative del Big Data management

Un recente passaggio evolutivo nell’applicazione delle tecnologie digitali nelle imprese italiane è stato quello relativo all’implementazione di infrastrutture e servizi cloud, che ha determinato e determina un certo cambiamento nei processi interni alle aziende. Questo genere di evoluzione tecnologica è tuttora in corso, guidata non solo dall’emergere di soluzioni web-based per le imprese, ma anche da nuovi abilitatori digitali decisamente pervasivi ed efficaci quali IoT (Internet-of-things), intelligenza artificiale e machine learning, o reti mobili di ultima generazione come il 5G.

Tutte queste tecnologie hanno in comune la creazione e l’utilizzo di una immensa mole di dati, cosa che ha generato la conseguente necessità di gestirli ed analizzarli, unitamente ad altre spinte di natura principalmente normativa (si pensi al GDPR sulla gestione della privacy e dei dati personali in vigore da qualche anno in Europa), mediante tecniche di Big Data management.

Le aziende si sono presto trovate quindi nella necessità di effettuare delle scelte per adeguarsi al cambiamento tecnologico, ed ognuna di esse sta avendo il suo riverbero nella conduzione dei processi aziendali e nell’organizzazione dell’impresa in senso sia strategico che operativo. Ad esempio, a livello direzionale, le realtà di mercato più all’avanguardia hanno iniziato da tempo ad adottare strategie di change management adatte all’implementazione ed allo sfruttamento dei nuovi paradigmi tecnologici (Digital Strategy). A livello operativo, molte imprese si sono attivate in vari modi per assorbire le competenze tecniche specifiche, sia mediante formazione che mediante reperimento sul mercato di figure professionali, per poter utilizzare al meglio gli strumenti innovativi di cui si stanno dotando seguendo l’evoluzione delle infrastrutture informatiche. Tale evoluzione procede velocemente ed è molto complesso anticipare i tempi prevedendone gli sviluppi concreti, tuttavia emergono alcuni elementi che sembrano fornire delle indicazioni chiare, almeno su di un piano sufficientemente generale: si va verso l’integrazione (ad esempio l’integrazione dei dati sul comportamento dei clienti con le attività di marketing e di customer service, dei dati di lavorazione dei macchinari e del reparto produttivo con la gestione della qualità del prodotto e della manutenzione predittiva, delle informazioni di mercato con le strategie di vendita, dei dati di produttività con la gestione delle risorse umane, eccetera) e ciò porta ad interpretare l’azienda come un anello di una supply-chain di dimensioni più ampie.

Questo si riflette direttamente sulla capacità di controllo e di analisi dei dati (Analytics e BI), il che espande il tema dei Big Data ben oltre il perimetro della singola impresa classica, coinvolgendo non solo, com’è ovvio, clienti e fornitori nelle loro attività tipiche di vendita e di acquisto, ma l’intera filiera del valore comprensiva delle tendenze comportamentali e sociali di tutti gli attori in gioco, interpretata a partire dall’utilizzo di tutti gli strumenti innovativi generatori effettivi di dati (ad oggi i dispositivi mobili hanno raggiunto un livello di pervasività totale anche in ambito lavorativo in ogni reparto, e le applicazioni software sono decisamente più determinanti delle soluzioni hardware).

Come si può facilmente comprendere, un tale sforzo di innovazione continua pretende altrettali impegni di riorganizzazione aziendale con un conseguente (e pesante) adeguamento dei processi, nonché l’eventuale implementazione di nuovi processi che possano rispondere alle emergenti esigenze di gestione – in particolare dei Big Data e delle modalità di loro interpretazione a fini imprenditoriali.

Il mercato dei prodotti informatici e dei servizi per la gestione di una grande mole di dati è in ascesa, ed ha superato da poco, in Italia, il miliardo di euro. Accedervi senza adeguati progetti di innovazione organizzativa potrebbe rivelarsi un boomerang.