Cosa aspettarsi per il settore Fashion nel 2022

Cosa aspettarsi per il settore Fashion nel 2022

A pochi mesi dalla sua pubblicazione, il report intitolato “The State of Fashion” prodotto da McKinsey & Company insieme a BOF (Business of Fashion), rivela l’andamento globale del settore moda, mettendo in evidenza le prospettive future e i temi caldi che potrebbero caratterizzare il business di tale industria nell’anno appena iniziato. La ricerca è basata sulle testimonianze di oltre 220 manager d’azienda ed esperti del settore che hanno condiviso il loro pensiero a riguardo.

Giunti alla conclusione del secondo anno di pandemia che ha segnato una diminuzione consistente delle vendite (in particolare nel 2020 si è registrato un calo di circa il 20%), si prevede, per il 2022, una progressiva ripresa economica per l’intero settore, con un aumento del 3%-8% delle vendite a livello globale rispetto al 2019.

Dal punto di vista geografico, secondo quanto afferma l’indagine, Cina e Stati Uniti rappresentano i leader di questa crescita mentre l’Europa registra un leggero ritardo in quanto dovrà aspettare il ritorno del turismo internazionale per poter accelerare il passo. Di conseguenza, la velocità di ripresa tra le varie nazioni sarà irregolare e ciò dipenderà non solo dalla presenza di sistemi sanitari ed economici resilienti ma anche dalla capacità dei manager di saper esaminare con attenzione le nuove opportunità di investimento e sfruttare i nuovi trend di mercato che a seguito del covid -19 sono mutati. Richiamando il concetto di “distruzione creatrice” dell’economista Schumpeter, è richiesto un processo di rinnovamento sulla base dell’attuale contesto circostante. Questioni riguardanti tematiche sociali e ambientali come la disparità di genere, l’inclusività e la sostenibilità continueranno ad essere dei punti fondamentali per le imprese del fashion. Molti brand cercheranno di indirizzarsi verso un modello di business circolare in grado di ridurre il più possibile gli sprechi e allungare il ciclo di vita del prodotto.

Altra opportunità di crescita rimarrà il digitale, che ha visto un incremento degli utenti nel mondo del gaming e nell’utilizzo della realtà virtuale. Allo stesso modo, le app di e-commerce avranno un ruolo importante per le vendite ed il marketing; di pari passo, poi, vi è il tema della sicurezza informatica contro eventuali attacchi di hacker.

Una sfida più difficile riguarda le pressioni sulla supply-chain che per il 67% degli intervistati causerà un aumento dei prezzi retail del 3%, mentre per il 15% comporterà un incremento dei prezzi più del 10%. Ciò è dovuto alla complessità del sistema di approvvigionamento, ad un aumento dei costi di spedizione e delle materie prime che comportano la necessità di costruire una catena di fornitura all’avanguardia e flessibile. L’impossibilità di poter viaggiare senza alcune limitazioni a livello internazionale che, come afferma il report, sarà prevista nel 2023/2024, ha ridimensionato in parte il concetto di lusso portando le grandi imprese a porre maggiori attenzioni ai consumatori locali in un’ottica di ciò che viene definito “domestic luxury”. Infatti, diversi sono i brand che si sono adattati alle esigenze e culture locali dei consumatori per costruire una relazione significativa con loro. Di conseguenza, potrebbero essere necessarie nuove strategie di marketing caratterizzate da eventi in grado di rafforzare la community e un mix di merce volto a soddisfare sia i gusti domestici sia quelli dei turisti in arrivo.

La creatività insieme al design saranno gli elementi primari che guideranno il coinvolgimento con il consumatore. È quanto afferma Stefan Larsson, amministratore delegato di PVH corporation secondo cui, nel 2022, sarà proprio la creatività stessa ad essere fattore di differenziazione. Similmente, lo studio di design Tiffany Hill crede che “vedremo più dettagli sui capi e saranno questi ad aggiungere valore a un prodotto”.

Sullo sfondo di questi temi vi è, poi, la ricerca del personale e, in particolar modo, la capacità da parte delle aziende di sapere individuare e trattenere i talenti. Quella delle risorse umane risulta essere una sfida ardua e complessa dal momento che il capitale umano resta la base fondamentale per lo sviluppo di un’azienda. Le imprese del settore moda devono mantenere un certo livello di competitività nel mercato, migliorando le condizioni lavorative dei dipendenti e facendo attenzione ai loro bisogni ed esigenze. Stando alle parole di Caroline Pill, responsabile presso Kirk Palmer Associates, i dipendenti sono per lo più attratti da fattori che si riconducono al chiedersi “quale è il mio impatto all’interno dello schema aziendale?”.

Si tratta di identificare il livello di significatività (“psychological meaningfulness”) che il lavoratore percepisce, cioè la consapevolezza del contributo del proprio lavoro nel perseguimento degli obiettivi dell’organizzazione. A fianco di ciò, sarà cruciale per quest’ultima dimostrare i propri valori e la propensione verso una responsabilità sociale al fine di poter attrarre nuove generazioni di talenti. Aziende che, fino ad oggi, hanno fatto affidamento sul fascino intrinseco del settore e sul potere del brand in questione, devono incrementare gli sforzi in modo tale che i dipendenti siano apprezzati e valorizzati per ciò che fanno.  Per rendere più efficace la ricerca ed essere più competitivi, sarà necessario utilizzare strumenti di selezione all’avanguardia e dedicarsi con maggiore impegno a pratiche di employer branding.

Negli anni a venire, aziende che non dimostrano un rinnovamento e uno slancio verso il cambiamento potrebbero non essere più attrattive nel mercato, mentre risulteranno vincitrici coloro che riescono a intraprendere azioni in linea con i nuovi trend e sapranno dialogare a fondo con i propri dipendenti e con i soggetti esterni.

Il Cosourcing per la selezione dei talenti

Il Cosourcing per la selezione dei talenti

Riuscire nell’impresa di selezionare personale adeguatamente specializzato, in linea con le aspettative aziendali, che sappia lavorare in team portando le proprie competenze e sia ben disposto al miglioramento continuo, è tutt’altro che semplice. Le attività di recruiting e assessment dei candidati, affidate in genere all’ufficio Risorse Umane/HR, possono essere molto complesse, ma allo stesso tempo risultano cruciali per riuscire ad intercettare i talenti sul mercato del lavoro. Infatti, oltre all’investimento sul lavoratore (che è principalmente di natura economica, ma anche amministrativa e psicologica), è necessario impegnare tempo e risorse per svolgere correttamente ed efficacemente l’intero processo di selezione, spesso ripetendolo numerose volte. Non di rado, le aziende non possiedono una struttura HR tale da poter attingere da un bacino sufficientemente ampio e/o mirato di candidati, e necessitano inoltre di supporto nello svolgimento di un processo di selezione completo.

Sono questi i casi tipici nei quali entra in gioco la possibilità di utilizzare il Cosourcing, ossia affidarsi ad una società specializzata nella ricerca e selezione del personale senza dover esternalizzare necessariamente tutte le attività previste, ma riservandosi di svolgere alcuni task specifici (colloqui tecnici, analisi short-list, scelta finale) pur demandando i compiti di ricerca, contatto e prima valutazione dei candidati.

Le 5 fasi principali del processo di recruiting sono:

      • attraction – fase in cui si cerca di attrarre i candidati in ottica multi-canale;
      • assessment – fase in cui si valutano i profili con metriche ad-hoc per la posizione richiesta;
      • selection – fase in cui vengono individuati i candidati migliori per l’azienda (short-list);
      • onboarding – fase in cui il candidato viene assunto e deve essere inserito pienamente in azienda;
      • performance – si valuta l’andamento della selezione effettuata tramite l’analisi delle metriche chiave (KPI).

Il Cosourcing può intervenire ed aiutare le imprese in tutte queste fasi: possono infatti essere messi a disposizione strumenti di comunicazione con logica multi-canale (siti specializzati, social network, Università e scuole di specializzazione, conoscenza diretta, ecc.), logiche di selezione su basi di dati molto ampie e tool software per metterle in pratica, strumenti di valutazione con framework oggettivi e codificati, strumenti per la corretta redazione di liste ed elenchi di nominativi potenzialmente adatti alla posizione da ricoprire, supporto alle relazioni interpersonali, anche di tipo psicologico, nonché parametri per l’analisi delle performance del lavoratore.

Senza dimenticare, naturalmente, le interviste o colloqui conoscitivi in cui si capisce chi è la persona che si ha di fronte, quali sono le sue abilità e competenze (comprese le cosiddette soft skill) e se è in linea con la cultura aziendale. Tutto ciò allo scopo, tra gli altri, di velocizzare l’intero processo, ovvero diminuire il “time to hire”. Le società specializzate in recruiting solitamente hanno la possibilità di svolgere, oltre ai colloqui individuali, anche prove pratiche, test psicometrici, attività di gruppo propedeutiche al team-working e assessment dei candidati. Il recruiter professionista è anche in grado di considerare i cosiddetti bias (distorsioni cognitive) nel momento in cui viene in contatto con il candidato, al fine di non compromettere il momento del colloquio.

Cosourcing, quindi, può essere una soluzione ottimale per quelle realtà imprenditoriali che non possiedono un reparto HR molto strutturato, o che necessitano di ricercare profili particolari, con competenze specifiche e mirate, oppure ancora che hanno bisogno di un confronto tra numerosi profili, anche in situazioni di lavoro multi-disciplinari o che richiedono abilità cross (sia di hard che di soft-skill)… ma che allo stesso tempo non sono obbligate ad esternalizzare l’intero processo di selezione e valutazione dei candidati, che viene invece messo in atto di concerto con gli specialisti del recruiting.

Se siete interessati nel Cosourcing per le attività di selezione e valutazione di candidati, non esitate a contattarci!

Stress da lavoro: Covid-19 e produttività aziendale

Stress da lavoro: Covid-19 e produttività aziendale

STRESS LAVORO-CORRELATO E PRODUTTIVITA’ AZIENDALE

Lo stress viene concepito come la risposta psicofisica ad una quantità di compiti emotivi, cognitivi o sociali percepiti dalla persona come eccessivi. Trasferendo il concetto generale agli ambienti di lavoro si può definire quindi lo stress lavoro-correlato come la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste [cfr. “European Agency for Safety and Health at Work]. Fino ad un certo livello lo stress può avere effetti positivi sul nostro organismo, consentendoci di reagire in modo efficace ed efficiente agli stimoli esterni e di innescare un’adeguata soglia di attenzione; uno stress prolungato però può diventare fonte di rischio per la salute, sia di tipo psicologico che fisico, riducendo l’efficienza sul lavoro.

Tra le conseguenze tipiche dello stress lavoro-correlato vi sono:

  • incremento dei fenomeni di assenteismo;
  • aumento del turnover non fisiologico;
  • minore retention dei collaboratori;
  • aumento di incidenti e infortuni;
  • bassa produttività;
  • declino nella qualità dei prodotti e del servizio;
  • mancanza di predisposizione all’innovazione;
  • resistenza al cambiamento;
  • ridotta immagine sociale dell’organizzazione.

Una conseguenza importante da tenere in considerazione nella valutazione del rischio stress da lavoro correlato è la mancanza di coinvolgimento. Se un ambiente sfidante con una cultura aziendale basata sul timore può, almeno in un primo momento, motivare le persone a dare il meglio, alla lunga l’engagement viene meno. Il coinvolgimento del collaboratore è strettamente legato all’apprezzamento, alla fiducia, al rispetto e al supporto che l’azienda e il manager sono capaci di dimostrare e rappresenta uno dei principali motori della sua produttività.

Sono molti i costi dovuti alla mancanza di engagement. Secondo gli studi condotti da Gallup Organization, i dipendenti non coinvolti registrano un tasso di assenteismo più alto del 37% e commettono il 60% di errori in più. A livello organizzativo, tutto ciò si traduce in minore produttività e minore fatturato. In aggiunta, lo stress nell’ambiente di lavoro porta ad un aumento del turnover di quasi il 50% con conseguenti gravi costi all’azienda. Appare dunque fondamentale per le aziende la capacità di riconoscere e prevenire i segnali di stress nel luogo di lavoro in modo tale da costruire un clima e una cultura positivi. Con l’approvazione del D.lgs. n. 81/2008 il legislatore ha introdotto l’obbligo di valutazione dello stress lavoro-correlato (art. 28, comma 1-bis) tra gli adempimenti a carico del datore di lavoro.

CAUSE DELLO STRESS LAVORO-CORRELATO

Le cause principali dello stress in azienda derivano quasi sempre da una gestione scorretta del personale. Tra le cause principali dello stress in azienda si individuano:

  • Eccesso di competitività tra singoli dipendenti e tra reparti;
  • Mancato coinvolgimento dei dipendenti nel raggiungimento degli obiettivi aziendali;
  • Scarsa valorizzazione delle risorse e degli obiettivi raggiunti dai singoli dipendenti e dai team di lavoro;
  • Disorganizzazione e confusione nella gestione quotidiana dei carichi di lavoro in azienda.

Tutte queste circostanze, se reiterate nel tempo, portano i dipendenti a sperimentare una situazione di disagio e frustrazione che andrà ad incidere sulla loro motivazione abbassando la produttività e infine ripercuotendosi negativamente sul fatturato dell’intera azienda.

STRESS LAVORO-CORRELATO E COVID-19

L’emergenza pandemica correlata alla diffusione del Covid-19 ha favorito l’aumento dei casi di stress, ansia e depressione, dato che le recenti disposizioni volte al contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica in atto hanno condotto molte aziende ad una forzata “sospensione o rimodulazione dell’attività lavorativa”. Alcuni lavoratori, ad esempio, si sono trovati di fronte ad uno stop forzato dell’attività e al contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (ove presenti). Lo smart-working ha consentito da un lato una maggiore continuità lavorativa, ma dall’altro ne ha spesso stravolte le modalità. La prosecuzione delle attività in alcuni settori essenziali (nonostante la percezione di un alto rischio) ha obbligato molti a dover adattarsi a nuovi orari, turni ecc.

Dare spazio agli aspetti emotivi e psicologici dei lavoratori può consentire ai datori di lavoro di individuare azioni strategiche di prevenzione al fine di contenere e gestire un eventuale disagio individuale e lavorativo. Ad esempio alcune aziende si sono attivate per avviare uno sportello d’ascolto, migliorare la comunicazione e la gestione dei lavoratori in smart working, offrire coaching ai responsabili e richiedere un supporto al cambiamento.

Approfondiamo il concetto di “smart working”

Approfondiamo il concetto di “smart working”

La recente emergenza legata al Coronavirus ha forzatamente sottoposto all’attenzione di tutti la questione dello smart working: un modello organizzativo in grado di portare notevoli vantaggi alle organizzazioni che lo adottano, in termini di produttività, raggiungimento degli obiettivi, ma anche in termini di welfare e qualità della vita del lavoratore. Tuttavia approfondire il significato di smart working non è immediato e nemmeno così intuitivo: il concetto resta ancora oggi ambiguo e dev’essere meglio definito. Fare smart working non vuol dire semplicemente “lavorare da casa”. Mentre la digital transformation non è un mero progetto, quanto piuttosto un avvicinamento continuo a tecnologie in evoluzione, fare smart working significa anche imparare a lavorare per progetti e introdurre strumenti condivisi per la pianificazione aziendale. Essendo l’imperativo “basta cartellino”, dinamicità, flessibilità, digitalizzazione e raggiungimento di obiettivi produttivi concordati diventano il nuovo focus, perdendo ovviamente di importanza la presenza fisica dei lavoratori in azienda.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano definisce la pratica dello smart working come una filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’azienda che si basa su quattro pilastri fondamentali: revisione della cultura organizzativa, flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro, dotazione tecnologica e nuovi spazi fisici. Il lavoro Agile è sinonimo di benessere e produttività dei dipendenti, nonché di riduzione delle emissioni. Come si evince da questa definizione, lo smart working va ben oltre il concetto di “telelavoro”. Se infatti quest’ultimo si configura come una vera e propria forma contrattuale, il lavoro Agile rappresenta un accordo tra lavoratore e organizzazione all’interno del rapporto di lavoro subordinato. Le due forme di remote working si differenziano soprattutto in termini di flessibilità e autonomia. Nello smart working, è il lavoratore a scegliere luoghi e orari di lavoro, laddove le regole imposte dal “telelavoro” sono invece abbastanza rigide e prestabilite.

Altro aspetto non secondario, dei quali molti non sono a conoscenza, è che lo smart working in Italia è legge. Dopo un primo periodo sperimentale caratterizzato da vuoti legislativi, parecchia confusione terminologica e discreta anarchia, la Legge n.81 del 22 maggio 2017 (anche detta Legge sul Lavoro Agile) ha finalmente regolato la materia del lavoro da remoto. Le sue direttive sono anche state recentemente ribadite dai DPCM dell’8 marzo, 9 marzo e 22 marzo 2020 in conseguenza dell’epidemia Covid-19.

Considerando la crescente diffusione della filosofia del Lavoro Agile è bene chiedersi allora se le aziende stiano considerando tutti gli elementi fondamentali nel modello. Ogni progetto di smart working, infatti, per avere successo, richiede di considerare contemporaneamente competenze diverse in azienda, modalità di gestione di team di lavoro a distanza, individuando obiettivi specifici, misurabili e definiti nel tempo, e di agire in modo sistemico su diverse leve di progettazione. Essenziale è la complementarietà tra soluzioni tecnologiche adottate, il ripensamento degli spazi e lo sviluppo di competenze e di una cultura aziendale orientata ai risultati. Tecnologie, competenze, spazi e cultura sono insomma le fondamenta alla base di ogni buona pratica di smart working. È necessario dunque un cambio di mentalità importante, nella formazione del personale e nel ruolo dei dirigenti, che porti ad un processo di cambiamento complessivo. Ciò richiede manager con capacità di delega, capacità di utilizzare strumenti adeguati al monitoraggio delle attività e alla valutazione delle performance, ma soprattutto capacità di motivare gruppi di lavoro geograficamente dislocati.

Un ultimo punto da considerare è che ai dipendenti lavorare da casa piace. Un’indagine condotta da CGIL su oltre 6.000 lavoratori ha messo in evidenza l’apprezzamento della maggioranza (oltre il 60%) per il lavoro da casa. Allo stesso risultato è giunta anche una ricerca della società di consulenza Variazioni: la somma di chi ha vissuto bene il lavoro da casa e di chi ne è rimasto addirittura entusiasta ammonta ad una netta maggioranza (sopra l’80% degli intervistati)!

Il vero costo dell’innovazione 4.0

Il vero costo dell’innovazione 4.0

L’innovazione 4.0 è la corsa all’oro degli ultimi anni, con le aziende che cercano i software e le tecnologie più recenti da implementare, alla ricerca di un vantaggio competitivo sia operativo sia nei confronti del mercato. Tuttavia, con l’obiettivo di massimizzare le prestazioni operative e ridurre al minimo gli sprechi, c’è una componente tecnologica che spesso viene tralasciata: il capitale umano.

Le persone, di fronte alle novità, si distinguono in due grandi categorie: coloro i quali cercano e apprezzano il cambiamento e quelli che lo rifiutano totalmente; quest’ultima categoria è ovviamente la più comune, non solo in coloro che sono più prossimi alla tanto agognata pensione, ma anche tra i giovani che cercano di scalare la piramide aziendale progetto dopo progetto. L’innovazione, mascherata da nuovo software, tecnologia, processo, best practice o teoria filosofica, porta con sé il cambiamento come componente fondamentale. Questo è il motivo per cui ogni progetto di implementazione innovativo dovrebbe tenere conto della gestione del cambiamento e dei suoi impatti organizzativi.

Un’innovazione è “l’atto, l’opera di innovare, cioè di introdurre nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi”. Innovare vuol dire quindi introdurre modi diversi di fare le cose e di pensare. Quindi, innovare, in una qualsiasi organizzazione significa cambiare il modo in cui le persone fanno il proprio lavoro e il modo in cui pensano al proprio lavoro, o al loro atteggiamento e ai loro obiettivi di carriera. Tutto questo, ça va sans dire, è più facile a dirsi che a farsi.

Durante la valutazione di un nuovo progetto, le aziende tendono a prendere in considerazione l’investimento finanziario iniziale e le successive riduzioni dei costi e/o maggiori ricavi e margini, trascurando la variabile umana. L’innovazione ha un suo costo intrinseco, cioè affrontare un cambiamento, cosa sempre stressante e più o meno difficile a seconda della cultura e dei valori individuali e organizzativi. D’altro canto, l’innovazione dovrebbe essere vista come un’opportunità per migliorare le skill (soft e non) delle persone, rivedere i processi aziendali e promuovere una cultura di gestione del cambiamento nell’intera organizzazione.

Ma quali sono le alternative disponibili? La prima, e forse peggiore, è rifiutare completamente l’innovazione e sperare di sopravvivere in un’economia in continua evoluzione. La seconda, più comune, è accettare il cambiamento e l’innovazione, ma sperando che un investimento finanziario costringa l’organizzazione a evolvere in qualche modo. La terza, e più preferibile, è quella di abbracciare l’innovazione, sviluppando una forte capacità di gestione del cambiamento e considerando il capitale umano come un pilastro fondamentale per le attività di project management.

Qual è il rovescio della medaglia? Come affermato nel modello “ASA” di Benjamin Schneider:

  • le persone sono attratte da organizzazioni i cui membri sono simili a loro stessi in termini di personalità, valori, interessi e altri attributi;
  • le organizzazioni hanno maggiori probabilità di selezionare coloro che possiedono conoscenze e abilità simili a quelle possedute dai loro membri esistenti;
  • col passare del tempo, coloro che non si adattano bene hanno maggiori probabilità di andarsene.

Ogni progetto (o processo) innovativo farà allontanare alcune persone e ne attirerà altre. Questo è di per sé uno degli aspetti più importanti dell’innovazione: costringe l’organizzazione a cambiare la propria cultura, ad evolversi e ad adattarsi ad una nuova dimensione di sé.

Per concludere, nella valutazione di qualsiasi progetto/investimento innovativo, le aziende non dovrebbero dimenticare i costi legati a cambiamenti stressanti e la funzione HR dovrebbe essere pronta a reagire e guidare l’organizzazione nella giusta direzione, perché i benefici dell’innovazione sono infiniti e stare fermi non è più un’opzione disponibile.

 

BIBLIOGRAFIA

  • “ASA model (Attraction-selection-attrition)” tratto da “People make the place” di Benjamin Schneider (Personnel Psychology, 1987).
Vincenzo Morello

Vincenzo Morello

Consulente MAS

Si occupa di Operations, Digital Innovation e Project Management nell’ambito di programmi di innovazione aziendale nei settori del fashion, del lusso e della produzione manifatturiera. Precedentemente si è dedicato ad attività di integrated reporting ed ha occupato posizioni di responsabilità nel settore retail/commerciale del mercato Fashion. E’ laureato in Business Administration presso l’Università degli studi di Padova.